arancia meccanica domenica, Feb 17 2008 

Facendo un po’ di ordine tra i miei file ho ritrovato una scheda (“Arancia Meccanica”: il potere del libero arbitrio) redatta da Ivana Faranda (http://www.ecodelcinema.com/arancia-meccanica-il-potere-del-libero-arbitrio.htm).

“Arancia meccanica” di Stanley Kubrick non ha perso ancora il suo fascino. Solo a prima vista il tema è quello della violenza, in realtà si parla di libero arbitrio, di manipolazione delle menti e di un mondo dove non c’è salvezza per nessuno. La vita del capodrugo Alex De Large è sesso, ultraviolenza e musica classica, il tutto annaffiato dal latte più del Korova milk bar. Tradito dai suoi complici e condannato per omicidio accetterà di farsi rieducare con il “Metodo Ludovico” che in qualche modo ricorda il progetto Mkultra attuato dalla CIA tra gli anni 60/70. Diventato cittadino esemplare a sue spese, Alex scoprirà che per sopravvivere il suo occhio deve tornare a scintillare come prima e con il beneplacito del potere. Un film che sin dal suo nascere ha avuto problemi con la censura, essendo passato agli occhi di tutti come opera che incita alla violenza come è capitato in tempi più recenti a “Natural Born Killer” di Oliver Stone. Trasmesso sabato 2 gennaio su Studio Universal di Sky, è stato considerato un tabù televisivo sino al 25 settembre 2007 data della sua prima messa in onda in chiaro su La7 dopo le ore 22.30. L’occhio azzurro di Malcolm Mc Dowell sinistramente enfatizzato dalle ciglia posticce ci introduce in un mondo dove non c’è salvezza per nessuno. Alex, eroe senza legge, paradossalmente è l’unico che resta puro anche nell’esercizio della violenza e incarna l’essenza stessa dell’Homo omini lupus. Del resto “Arancia Meccanica” è una libera traduzione di “as queer as a clockwork orange” espressione londinese che suona come “strano come un’arancia meccanica” dove queer sta per fuori dal comune. Tutti i personaggi ruotano intorno al protagonista, a partire dai suoi “amici” che non possedendone il carisma lo vendono al potere per diventarne loro stessi parte. La Londra in cui si svolge la scena è un labirinto squallido e sporco come l’androne di casa di Alex. Gli ambienti in cui si muovono i personaggi sono futuribili quasi sulla scia di Odissea 2001. Colore dominante il bianco come le divise dei drughi, il Korova Milk Bar, simbolo di purezza e di freddo minimalismo al tempo stesso. Su di esso risalta il rosso come il sangue e come l’abito della signora violentata nella casa di campagna, mentre nere sono le divise dei miliziani-poliziotti. Le scene di violenza, seppur dure non appaiono fini a se stesse e portano l’indiscutibile marchio british dell’humour noir come vedremo fare molti anni dopo in “Trainspotting” senza il genio estetico di Kubrick. Indimenticabile lo stupro a tempo di “Singing’ in the rain”, come il balletto di violenza nel vecchio teatro con “ La gazza ladra”. La lingua usata è il “nadsat”, un mix d’inglese e russo inventato dall’autore dell’omonimo libro Anthony Burgess. Di Stanley Kubrick era noto il suo perfezionismo e qui il grande maestro non si smentisce dalle scenografie ai costumi. Non si possono non ricordare i tavolini ispirati alle sculture dell’artista inglese Allen Jones “Chairs and tables” a forma di donna e i grotteschi abiti della madre di Alex. Nella casa assolutamente kitch dei genitori la stanza del nostro eroe chiusa come una cassaforte appare quasi un’isola di buon gusto dove domina un quadro che rappresenta il grande Beethoven. Le due parti del film potrebbero sottotitolarsi “delitto e castigo”, in una struttura circolare Alex diventa da carnefice vittima in una chiave quasi “karmica”. Il secondino che lo accoglie in prigione è quasi una parodia di Hitler e anche il ministro che lo inserisce nel “programma Ludovico” appare l’incarnazione del potere nella sua forma più viscida e inquietante. Chiuso in una camicia di forza e con un fissa palpebre come strumento di tortura, all’ex capodrugo viene fatto credere che il “cinebrivido” sia la cura. In realtà in quel momento lui è il cane di Pavlov. Le immagini viste durante la cura dall’occhio di Alex sono le stesse che guardiamo noi spettatori durante il film senza riuscire a distogliere lo sguardo da quello schermo che pure ci inquieta la coscienza. Guarito, Alex rientra nella società non più delinquente temibile ma buon cittadino che si sente soffocare se assiste a scene di violenza e aimè se ascolta la Nona di Beethoven. In un orribile teatrino sarà la marionetta del ministro degli interni e solo il vecchio prete avrà un tocco di umanità ricordando che senza libera arbitrio non c’è vita, che il bene deve essere una scelta. Fuori nel mondo sarà la “vittima dell’era moderna” e desidererà di “renderla”, di morire senza dolore e in pace. L’amata nona diventata per lui supplizio mortale, nonostante tutto gli aprirà la via di fuga. “Arancia meccanica” si chiude come si è aperto con l’occhio azzurro di Alex che ritorna finalmente alla vita puro come prima, così diverso dalla sinistra maschera del ministro che gli propone “Una nuova intesa tra vecchi amici”.

mercoledì, Feb 13 2008 

Potremmo essere più umani nei nostri rapporti professionali? Il lavoro sta perdendo sempre di più le sue dimensioni umane. In che misura il lavoro sta improntando la vita delle persone? Quanto “pesa” l’educazione ricevuta? Quanto sta influendo l’imitazione inconscia di modelli di comportamento “vincenti”?
Per dirla in modo molto rozzo, abbiamo un’educazione che da una parte ci porta verso la dipendenza, dall’altra ci spinge a vivere, ad andare verso l’emancipazione … in un modo patologico. E’ un’emancipazione che cerca di realizzarsi attraverso la competitività, la competizione malsana, l’arrivare primi ai danni degli altri. Questo non fa altro che aumentare la drammaticità dei rapporti e quindi alimentare il conflitto, la “guerra” tra bande e tra singole persone.

L’insicurezza è un prodotto dell’informazione ? giovedì, Gen 24 2008 

Ecco un articolo di Ilvo Diamanti comparso su la Repubblica del 13 gennaio 2008. Una occasione in più per riflettere sul tema “percezione del rischio” e “informazione sul rischio”.

MAPPE
Criminalità, quando
la percezione diventa reale
di ILVO DIAMANTI

LA COMMISSIONE affari istituzionali, presieduta da Luciano Violante, nei giorni scorsi ha invitato i direttori delle testate giornalistiche e delle reti televisive nazionali a spiegare perché la paura della criminalità continui a crescere mentre il fenomeno tende a ridimensionarsi.

Implicita – e neanche troppo – l’idea che la principale responsabile sia l’informazione televisiva. L’iniziativa ha provocato, da parte dei direttori e dei dirigenti radiotelevisivi, reazioni irritate. Largamente comprensibili e, a nostro avviso, giustificate. Tuttavia, la questione è sicuramente importante. E merita di essere affrontata, una volta di più.

Partendo dal problema di base: il divario fra i dati e le percezioni. Esiste davvero? A nostro avviso sì. L’abbiamo sostenuto altre volte e lo ribadiamo in questa sede. Anche se le statistiche variano, in base alla fonte e al dato rilevato. Si tratti del ministero dell’Interno, dell’Istat, di Eures-Ansa, delle autorità giudiziarie oppure, direttamente, delle Forze dell’ordine.

Comunque, negli ultimi quindici anni il numero dei reati, nell’insieme, non è cambiato. Semmai, in alcuni casi, particolarmente significativi, è calato. Dal 1991 al 2006, gli omicidi volontari si sono ridotti a un terzo (ministero dell’Interno): da 3,3 a 1,1 per 100mila abitanti. I furti in abitazione sono passati dallo 3,6 a 2,4 per mille abitanti. Gli scippi da 1,3 a 0,4 per mille abitanti. Sono cresciute, invece, le rapine: da 0,7 a 0,9 per 1000 abitanti. La percezione della minaccia criminale, invece, negli ultimi dieci anni è cresciuta in modo prepotente.

Nel 1997, l’Osservatorio Ispo (curato da Renato Mannheimer) faceva emergere come il 16% degli italiani indicasse la “criminalità” fra i due problemi più urgenti da affrontare. Due anni dopo, la quota di persone che riteneva urgente lo stesso problema raddoppiava: 35%. Più o meno la stessa percentuale rilevata nel 2002 (in una lista di temi un po’ diversa) da Demos. La cui indagine più recente (novembre 2007) pone la “criminalità” al primo posto fra le preoccupazioni degli italiani (40%).

Aggiungiamo che questa tendenza non è specificamente italiana, ma da noi risulta più acuta che altrove. Nell’indagine di Eurobarometro, condotta nello scorso autunno, la criminalità è considerata un problema prioritario dal 24% della popolazione, nell’insieme dei 27 Paesi della Ue; un dato stabile rispetto alla rilevazione primaverile. In Italia la stessa preoccupazione è, invece, denunciata dal 33% dei cittadini. Cinque punti percentuali in più rispetto al precedente sondaggio.

Il divario fra la misura e la percezione della criminalità, a nostro avviso, esiste. Ma spiegare l’insicurezza come un prodotto dell’informazione televisiva è sicuramente sbagliato.

1. In primo luogo, si tratta di una lettura riduttiva, fondata su termini e concetti che, negli ultimi anni, hanno cambiato significato, in modo profondo. Per quel che riguarda il fenomeno della “criminalità”, le comparazioni con il passato sono improprie (lo ha notato, di recente, Nando Pagnoncelli). Trascurano il peso, dominante, dei reati che minacciano l’intimità, il domicilio, l’incolumità delle persone. Riassunti nelle definizioni di “microcriminalità” o di criminalità “comune”. Ma per la gente “comune” questi reati, commessi negli ambienti di vita quotidiana, costituiscono, la vera “macro-criminalità”. Gli stessi omicidi volontari (dimezzati dal 1990 al 2005: da 1695 a 601: Rapporto Eures-Ansa, 2006), d’altronde, avvengono soprattutto nella cerchia familiare e amicale (40%). Il senso di insicurezza è, quindi, cresciuto perché i reati di gran lunga più diffusi ci insidiano direttamente, da vicino. Personalmente. Noi, la nostra casa, i nostri cari.

2. Anche per quel che riguarda le responsabilità dell’informazione televisiva, occorre precisare. Di certo, la televisione è, oggi, il primo e principale mezzo di informazione. L’87% degli italiani afferma di seguire, ogni giorno, le notizie in tivù (Demos-coop, novembre 2007). Tuttavia, lo spazio dedicato dai telegiornali alla “nera” è limitato. Si va dal 2-3% del tempo complessivo, nel 2007, su Tg1, Tg3 e Tg4, fino al 4-5% sul Tg2 e su Studio Aperto (dati Geca Italia). Una frazione troppo piccola per incolparli di aver distorto la percezione degli italiani. E’, semmai, utile allargare il campo all’intero sistema della comunicazione. Per quel che riguarda la televisione: ai rotocalchi di approfondimento, ai programmi che miscelano informazione e intrattenimento, alle trasmissioni popolari del pomeriggio e del mattino. E’ qui che i delitti di vita quotidiana occupano maggiore spazio. Al punto da divenire sequel di successo.

Inoltre, non dobbiamo trascurare gli altri media. I quotidiani e i settimanali. Non solo perché si rivolgono a un settore particolarmente informato. Ma perché, da quando si è affermata l’informazione su Internet, intervengono sui fatti, in tempo reale. Perché, inoltre, i giornalisti televisivi impostano i notiziari incalzati (e influenzati) dalle edizioni on-line dei quotidiani e dai tg delle reti satellitari (Sky e Rai-News 24, in primo luogo).

3. Tuttavia, ricondurre lo scarto fra realtà ed emozione al ruolo (e alle responsabilità) dell’informazione significa ignorare almeno altri due “colpevoli”. Altrettanto significativi. Il primo è il cambiamento del paesaggio urbano e sociale. Il rarefarsi delle reti di solidarietà, dei contatti personali, della fiducia. Le risorse che rendevano più “sicuro” il mondo intorno a noi. Ne abbiamo parlato altre volte: quando non conosciamo chi abita intorno a noi, viviamo chiusi in casa, blindati (porte, finestre, mura), armati, difesi da cani da guardia che ci separano dagli altri; quando il territorio circostante diventa inguardabile e inospitale.

Allora, è difficile non sentirsi inquieti, impauriti. Sperduti. Allora i media diventano sempre più importanti, perché costituiscono il principale, spesso unico canale di relazione con il mondo. E trasferiscono in casa nostra il mondo, con i suoi molteplici motivi di tensione e di paura.

Il secondo “colpevole” è l’ambiente che, nei giorni scorsi, ha “chiamato a rapporto” l’informazione radiotelevisiva: la classe politica. Perché, da un lato, usa la sicurezza e l’insicurezza come armi improprie, per catturare consensi. Alimentando e usando le paure come bandiere e, spesso, come clave. Mentre, dall’altro, non è estranea al sistema mediatico. Al contrario. I politici: sui media, li incontri ovunque.

Soprattutto in tivù. Quando si discute di immigrazione e del costo della vita. Quando irrompono i rifiuti di Napoli. Ma anche nella saga infinita dei delitti “di fuori porta”. A Cogne, Garlasco, Erba, Perugia. I politici: pronti a tutto pur di conquistare qualche minuto sugli schermi. Basterebbe chiedere ai direttori delle testate radiotelevisive (giornalistiche e non) quante telefonate ricevano, ogni giorno, da politici (destra o sinistra, non c’è differenza) bramosi di esternare i loro sentimenti e le loro opinioni sui fatti del giorno. In altri termini: di apparire.

Dietro allo scarto fra le misure e la percezione dell’insicurezza, quindi, non ci sono i tg o la tivù in sé. Ma il diverso rapporto fra comunicazione, informazione e vita quotidiana. Che è divenuto diretto e immediato. Le informazioni fluiscono in tempo reale e raggiungono le persone in ogni momento. Per cui, viviamo in un eterno presente. Gli eventi fluiscono, senza soluzione di continuità. Qualcuno sovrasta gli altri. Per una settimana, un giorno, magari un solo minuto.

Il ruolo di chi fa informazione, nel mondo dell’iperinformazione, per questo, è determinante. Nella babele di notizie, che fluiscono senza sosta, i media fissano il punto su cui si concentra l’attenzione di tutti. Come una torcia nella notte – ha suggerito Zygmunt Bauman – illuminano un fatto, un evento, una persona. Assecondati, anzi, sollecitati dal sistema politico, che da tempo ha sostituito la partecipazione con la comunicazione. E ha bisogno di dare un volto, un’identità, un nome all’incertezza incerta che alita nell’aria. E inquieta tutti. Certo, la realtà conta, ci mancherebbe. Ma, per “imporsi”, deve bucare la notte.

Incendiare il buio. Altrimenti la notte, dopo un po’, cala di nuovo e inghiotte tutto e tutti. E’ questo il pericolo da evitare: che la “percezione” sia l’unico “fatto” significativo. Come ha rammentato Ezio Mauro, nel suo viaggio a Torino, intorno alla Thyssen. Dove ha incontrato gli operai. Invisibili, da tempo. Per diventare visibili hanno dovuto bruciare. In sette. Come torce. Ora che si sono “spenti”, c’è il rischio che il buio li inghiotta di nuovo.

Combattere il male riconoscendo che appartiene alla natura umana giovedì, Gen 17 2008 

San Francisco – Philip G. Zimbardo, psicologo sociale ed ex presidente della American Psychological Association, si è fatto una reputazione studiando come le persone nascondono il bene e il male che è in loro e le condizioni nelle quali questi vengono espressi.
Il suo Esperimento carcerario di Stanford del 1971 (al quale i libri di testo scientifici fanno riferimento come S.P.E.), ha mostrato come sia possibile usare anonimato, conformismo e noia per indurre un comportamento sadico in studenti altrimenti sani. Più recentemente Zimbardo, che ha 74 anni, ha studiato come decisioni politiche e scelte individuali hanno portato agli abusi nella prigione di Abu Ghraib in Iraq.
Il percorso che lo ha condotto da Stanford ad Abu Ghraib è descritto nel suo nuovo libro: The Lucifer Effect. Understanding How Good People Turn Evil.

D. Potrebbe spiegare l’esperimento carcerario di Stanford per quelli che non lo hanno studiato all’università?

R. Nell’estate del 1971 mettemmo su una finta prigione nel campus dell’università di Stanford. Abbiamo preso 23 volontari, dividendoli in due gruppi. Si trattava di giovani normali, di studenti. Abbiamo chiesto loro di comportarsi come avrebbero fatto dei “prigionieri” e delle “guardie in n contesto carcerario. L’esperimento è durato due settimane.
Alla fine del primo giorno non era successo quasi nulla. Ma il secondo giorno c’era stata una rivolta dei prigionieri. Le guardie sono venute da me: “Cosa facciamo?”. “E’ la vostra prigione”, ho detto loro mettendoli in guardia contro atti di violenza fisica. Le guardie allora sono passate rapidamente alle punizioni psicologiche, ma ci sono stati anche casi di maltrattamenti fisici. Nei giorni seguenti, le gurdie sono diventate persino più sadiche, negando ai prigionieri cibo, acqua e sonno, colpendoli con il getto degli estintori, buttando le loro coperte nel pattume, spogliandoli e trascinando i ribelli nel cortile. A che livello arrivarono? Le guardie ordinarono ai prigionieri di simulare atti di sodomia. Perché? Perché le guardie erano annoiate. La noia è un forte movente per il male. Non so sino che punto la situazione sarebbe potuta peggiorare.

D: Quale è stata la sua prima reazione nel vedere le foto di Abu Graib?

R: Sono rimasto colpito, ma non sorpreso. A darmi fastidio è stato soprattutto il fatto che il Pentagono abbia voluto dare la colpa a “poche mele marce”. Grazie al nostro esperimento so che mettendo delle mele sane in una situazione di marciume si ottengono mele marce. E’ per questo che volevo intervenire come perito al processo del sergente Chip Frederick che per il suo ruolo nelle violenze ad Abu Graib è stato condannato a otto anni. Frederick era il riservista dell’esercitona cui era stato affidato il turno di notte al reparto 1°, dove si sono verificati i maltrattamenti. Frederick ha detto: “Quello che ho fatto è sbagliato e non capisco perché l’ho fatto”.

D. Lei lo capisce?

R: Sì. La situazione lo aveva totalmente corrotto. Quando la sua divisione di riservisti fu assegnata ad Abu Graib, Frederick era come uno dei nostri giovani dello S.P.E. tre mesi dopo, era come una delle nostre peggiori guardie.

D: Lei continua a dire “la situazione” per descrivere le cause all’origine delle trasgressioni. A che si riferisce?

R. Al fatto che il comportamento umano è nfluenzato più da fattori esterni che interni. La “situazione” è l’ambiente esterno. L’ambiente interno sono i geni, la storia morale, l’educazione religiosa. Ci sono volte n cui le circostanze esterne possono sopraffarci e facciamo cose alle quali non avevamo mai pensato. Se non si è consapevoli del fatto che questo possa accadere è possibile lasciarsi sedurre dal male. Abbiamo bisogno di un vaccino contro la nostra potenziale capacità di compiere del male. Dobbiamo riconoscerne l’esistenza, solo allora potremmo cambiarla.

(questo è un articolo di Claudia Dreifus comparso su The New York Times (la Repubblica), lunedì 16 aprile 2007, pag. VI

Veterani sempre più violenti lunedì, Gen 14 2008 

colto da: http://www.rtsi.ch/informazione/welcome.cfm?idChannel=2330&idModule=3645&idSection=24994&idPage=0&idContext=1

Negli USA aumentata dell’89% la sindrome da “violenza di ritorno”
13.01.2008, 17:30 | La violenza della guerra entra nel sangue a tal punto che a conflitto terminato per alcuni soldati statunitensi è difficile smettere di uccidere: almeno 121 veterani impegnati in Iraq o in Afghanistan, una volta rientrati in patria hanno sicuramente ammazzato qualcuno o sono formalmente accusati di averlo fatto, mentre un numero imprecisato di militari sono coinvolti in altri 349 casi di omicidio.
Lo rivela domenica il New York Times, che in prima pagina pubblica i risultati di una sua inchiesta, basata sulle informazioni raccolte attraverso giornali locali, rapporti di polizia, documenti ufficiali sia di tipo militare sia giudiziario. Dall’indagine emerge un dato impressionante: il fenomeno della cosiddetta “violenza di ritorno” è cresciuto dell’ 89%, rispetto ai periodi precedenti, da quando sono cominciate le guerre in Iraq e in Afghanistan.
Il New York Times ha chiesto ragione al riguardo al Dipartimento della Difesa USA, “ma i dirigenti interpellati non hanno immediatamente risposto mentre l’Agenzia militare ha declinato l’invito”, scrive il quotidiano. Un portavoce dell’esercito, però, il colonnello Les Melnyk ha contestato sia le premesse, sia il metodo dell’inchiesta. Per esempio, sostiene il graduato, sono stati messi insieme casi di omicidio colposo con casi di omicidio preterintenzionale, casi di omicidio di primo grado con casi di incidenti stradali. Per questo motivo, conclude, i risultati dell’inchiesta appaiono essere clamorosi.
Resta il fatto che, secondo il quotidiano, “né il Pentagono, né il Dipartimento di Giustizia provvedono a monitorare delitti di questo tipo”, nonostante siano pubblicamente trattati nei tribunali. Tra i diversi eventi citati, figura quello di un padre di 20 anni ricoverato per le ferite riportate in Iraq che ha trucidato la figlia di 2 anni, oppure quelli (numerosi) di fidanzate o moglie uccise durante liti.

La bandiera (dell’umanità) issata al contrario lunedì, Gen 14 2008 

“Non si mettono mai le bandiere al contrario: è segno che la nazione rappresentata sta chiedendo aiuto”.
Questa è l’affermazione convinta e devota di Hank, orgoglioso veterano dell’esercito, padre patriottico alla ricerca del figlio sparito da una settimana dopo essere tornato in licenza dall’Iraq. Sarà Hank stesso a dover issare al contrario la Bandiera a stelle e strisce nel finale struggente del film Nella valle di Elah di Paul Haggis.
Il regista si è ispirato ad una storia vera pubblicata sulle pagine di Playboy da Mark Boal che in un articolo riportò alla luce l’omicidio di un giovane soldato appena rientrato dall’Iraq.
Sembrava un caso isolato … Oggi la superpotenza continua a piangere anche quei suoi figli che sembrano scomparire in un male di vivere senza soluzione.
Una bandiera al contrario, che ci spinge a riflettere. Sembra voler dire che dalla guerra non si torna mai e che la violenza porta a un imbarbarimento senza ritorno.
Le cronache ci stanno abituando all’idea: chi si trova ad esercitare il potere con il terrore tende a farlo anche una volta tornato a casa.

colto nella rete (libreria delle donne) lunedì, Mar 5 2007 

Una lettera da Catania di Toti Domina

Disagio, ingiustizie, macismo, competizione, arroganza, corruzione, enormi ipocrisie, mafia, connivenze, beceri compromessi, …. sono una miscela esplosiva.
Catania è anche questa, e non possiamo nasconderlo.
La tragedia era nell’aria, solo che questa volta si è intrecciata con il calcio e ha coinvolto un onesto poliziotto e i suoi affetti più cari (due elementi che hanno portato tutto alla ribalta internazionale).
Esistono però tante, sicuramente meno eclatanti, tragedie a Catania, che non fanno notizia.
Inutile sottolineare che il calcio è un pretesto per scaricare questa rabbia e questa follia collettiva in modo scientifico e organizzato.
Il “vero catanese” è maschio, forte, non si fa mettere i piedi in faccia (piuttosto li mette), per lui le femmine o sono sante o sono puttane o comunque da sottomettere o da insultare (anche allo stadio). Dove scaricare questa virilità, questa violenza? Contro chi? Allo stadio dicono tutti.
[Magari fosse solo allo stadio – n.d.r.] In casa dico io, dentro la vita domestica anche di famiglie apparentemente tranquille e per bene. A scuola contro chi non si adegua o è diverso. Nel lavoro se qualcuno per caso decide di pensare con la propria testa. Nel quartiere se ti rifiuti di far parte del branco e non riconosci chi è il capo.
A me piace tantissimo andare allo stadio, lo trovo uno spettacolo immenso, e lo considero un mio diritto e me lo voglio riprendere, a Catania, insieme al diritto di poter pensare con la mia testa, di poter gridare contro i potenti e i prepotenti, insieme al diritto di vivere il mio essere maschio senza per questo essere violento e violentatore, ma occupandomi dei miei figli, della casa, andando allo stadio senza insultare le madri o le mogli di nessuno, pieno di dubbi, pauroso e fragile.
scusate il disturbo
Toti

La scuola può produrre ansia e frustrazione in chi la frequenta? Fa ammalare? domenica, Mar 4 2007 

La scuola può produrre ansia e frustrazione in chi la frequenta? Fa ammalare? Gli uomini, ma soprattutto le donne, che hanno vissuto direttamente tali drammatiche esperienze, lo dimostrano in modo inequivocabile. Quando vi sono condizioni di lavoro, che non riescono a promuovere il benessere e il rispetto reciproco delle persone, sta male chi lavora e va male il buon andamento del lavoro. Poi, alla lunga, le persone scoppiano e non si può fare a meno di diagnosticare un problema a loro carico. La conclusione è che a scuola ci si ammala, ma il disagio e la sofferenza individuale rappresentano solo il lato più evidente di uno squilibrio del rapporto tra l’ambiente di lavoro e la persona. Questo è il primo problema.
Purtroppo non si è ancora compreso che anche a scuola, come in qualsiasi altro tipo di organizzazione, l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di salute e sicurezza) vissuto nel luogo di lavoro. Non si presta la necessaria attenzione sul fatto che esiste una molteplicità di rischi, a carico di chi lavora nella scuola, dipendenti da fattori di natura psico sociale correlati al lavoro. Che nonostante abbiano attendibilità scientifica, vengono misconosciute dalla politica e dalla amministrazione centrale.
Uno stato di fatti che pone ogni dirigente scolastico di fronte a molte responsabilità.
La qualità dell’ambiente di lavoro determina il livello di soddisfazione delle persone, la loro partecipazione attiva e la loro produttività.
L’ambiente di lavoro riveste molta importanza nei confronti della qualità della salute (uno stato di pieno benessere fisico, mentale e sociale, non solo assenza di malattia.) delle persone.
Il livello di soddisfazione del lavoratore nei confronti del suo ambiente di lavoro determina effetti sulla sua salute. E’ il controllo che egli esercita sulla sua attività, ossia la sua ampiezza decisionale, ciò che una persona può esercitare sul suo ambiente di lavoro e sulle sue attività quotidiane, le decisioni prese e i risultati di tali decisioni, che sottendono la salutogenesi del lavoro.