effetti collaterali della “guerra” liberista venerdì, Gen 25 2008 

Gli effetti collaterali di quella che è stata definita una “guerra” liberista, che influiscono sulla realtà sociale e civile si sono trasformati in perdite e profitti, in nome di una ragion di stato aziendale o nella ragione di gruppo di imprese in ristrutturazione.
E, che in realtà la “guerra” liberista provochi gli stessi effetti della guerra classica, è stato posto in evidenza da Patrick Bouvard attraverso alcuni esempi:
eccita i più bassi istinti dell’umanità, incitando le persone alla megalomania, agli abusi e al tornaconto personale senza alcun pudore; provoca nella opinione degli stessi che la credono giusta (la guerra), e che la sostengono con il loro consenso, un certo numero di dubbi, di paure, nonché una impressione sempre più definita di imbroglio e di inutilità; infine, colpisce e marchia in modo indelebile le persone e le popolazioni più esposte e più deboli.
Si potrebbero aggiungere ancora ulteriori spunti di riflessione, ma queste annotazioni schematiche saranno sufficienti per aiutare ciascuno di noi a fare considerazioni e collegamenti ulteriori, a partire dalla propria esperienza.
Fermandoci un po’ a pensare, avremo la possibilità di scoprire quanto sia grande la illusione che negare l’altro voglia dire affermare se stessi. Quanto rappresenti soltanto il contrario della realtà il fatto che l’affermazione di sé debba implicare la negazione dell’altro (mors tua vita mea). La negazione dell’altro si basa su una profonda negazione di sé, sull’odio che (inconsciamente) si ha per sé; mentre la vera affermazione di sé comprende sempre anche l’affermazione dell’altro. Di conseguenza l’aggressività che nel primo caso si trasforma inevitabilmente in distruttività, nell’altro diventa fiducia, pro-positività, amore e saggezza. La saggezza rappresenta l’affermazione della vita, un sì senza riserve all’affermarsi delle forme e delle diversità dell’esistenza ed è saggio quindi chi afferma sé stesso ma non rinuncia a riconoscere l’affermarsi dell’altro.
In questo modo la violenza non riuscirà a dominare la persona, nel momento in cui essa potrà esprimersi esercitando le sue capacità individuali. È paradossale! Perché spesso si crede che l’essere non aggressivi voglia dire offrire maggiori chance agli altri, Ma questa è l’illusione che, di solito, innesca un conflitto.

gli uomini si credono più intelligenti … venerdì, Gen 25 2008 

una notizia colta al volo.

Gli uomini si credono molto più intelligenti di quanto non siano, e le donne molto meno. L’analisi di una trentina di studi scientifici operata da Adrian Furnham, professore di Psicologia presso lo University College di Londra, non entra nel merito del dibattito infuocato (e forse anche sterile) che cerca di determinare chi sia più intelligente tra uomini e donne, ma indaga la percezione della propria e altrui intelligenza. E a quanto pare tutti pensano che gli uomini siano più intelligenti. “C’è sicuramente nei maschi un ego più sviluppato”, racconta Furnham, “Ciò che noi chiamiamo hybris (dal greco, si può tradurre con tracotanza o superbia) maschile e umiltà femminile”. Lo studio, infatti, mostra che le donne sottovalutano il loro quoziente intellettivo di ben 5 punti mentre gli uomini lo sopravvalutano. Lo studio mostra inoltre che anche le donne sovrastimano l’intelligenza degli uomini che le circondano: nonni, padri e figli. Questa differenza di percezione secondo l’autore ha una certa ricaduta poi sulla vita quotidiana. Gli uomini hanno molta più fiducia nelle loro capacità e questo, ad esempio nel mondo del lavoro, è un fattore vincente. Sottostimarsi invece può essere dannoso e portare a ottenere a risultati inferiore quando si potrebbe puntare più in alto. Anche Henry Ford lo sosteneva: “Sia che tu creda di poter o non poter riuscire a fare qualcosa, hai ragione”. Ma in fondo era un uomo. Fonte: Raymond J. He’s not as smart as he think. Newsweek 23 Gennaio 2007

di caterina visco
Pensiero Scientifico – Ven 25 Gen – 09.06

L’insicurezza è un prodotto dell’informazione ? giovedì, Gen 24 2008 

Ecco un articolo di Ilvo Diamanti comparso su la Repubblica del 13 gennaio 2008. Una occasione in più per riflettere sul tema “percezione del rischio” e “informazione sul rischio”.

MAPPE
Criminalità, quando
la percezione diventa reale
di ILVO DIAMANTI

LA COMMISSIONE affari istituzionali, presieduta da Luciano Violante, nei giorni scorsi ha invitato i direttori delle testate giornalistiche e delle reti televisive nazionali a spiegare perché la paura della criminalità continui a crescere mentre il fenomeno tende a ridimensionarsi.

Implicita – e neanche troppo – l’idea che la principale responsabile sia l’informazione televisiva. L’iniziativa ha provocato, da parte dei direttori e dei dirigenti radiotelevisivi, reazioni irritate. Largamente comprensibili e, a nostro avviso, giustificate. Tuttavia, la questione è sicuramente importante. E merita di essere affrontata, una volta di più.

Partendo dal problema di base: il divario fra i dati e le percezioni. Esiste davvero? A nostro avviso sì. L’abbiamo sostenuto altre volte e lo ribadiamo in questa sede. Anche se le statistiche variano, in base alla fonte e al dato rilevato. Si tratti del ministero dell’Interno, dell’Istat, di Eures-Ansa, delle autorità giudiziarie oppure, direttamente, delle Forze dell’ordine.

Comunque, negli ultimi quindici anni il numero dei reati, nell’insieme, non è cambiato. Semmai, in alcuni casi, particolarmente significativi, è calato. Dal 1991 al 2006, gli omicidi volontari si sono ridotti a un terzo (ministero dell’Interno): da 3,3 a 1,1 per 100mila abitanti. I furti in abitazione sono passati dallo 3,6 a 2,4 per mille abitanti. Gli scippi da 1,3 a 0,4 per mille abitanti. Sono cresciute, invece, le rapine: da 0,7 a 0,9 per 1000 abitanti. La percezione della minaccia criminale, invece, negli ultimi dieci anni è cresciuta in modo prepotente.

Nel 1997, l’Osservatorio Ispo (curato da Renato Mannheimer) faceva emergere come il 16% degli italiani indicasse la “criminalità” fra i due problemi più urgenti da affrontare. Due anni dopo, la quota di persone che riteneva urgente lo stesso problema raddoppiava: 35%. Più o meno la stessa percentuale rilevata nel 2002 (in una lista di temi un po’ diversa) da Demos. La cui indagine più recente (novembre 2007) pone la “criminalità” al primo posto fra le preoccupazioni degli italiani (40%).

Aggiungiamo che questa tendenza non è specificamente italiana, ma da noi risulta più acuta che altrove. Nell’indagine di Eurobarometro, condotta nello scorso autunno, la criminalità è considerata un problema prioritario dal 24% della popolazione, nell’insieme dei 27 Paesi della Ue; un dato stabile rispetto alla rilevazione primaverile. In Italia la stessa preoccupazione è, invece, denunciata dal 33% dei cittadini. Cinque punti percentuali in più rispetto al precedente sondaggio.

Il divario fra la misura e la percezione della criminalità, a nostro avviso, esiste. Ma spiegare l’insicurezza come un prodotto dell’informazione televisiva è sicuramente sbagliato.

1. In primo luogo, si tratta di una lettura riduttiva, fondata su termini e concetti che, negli ultimi anni, hanno cambiato significato, in modo profondo. Per quel che riguarda il fenomeno della “criminalità”, le comparazioni con il passato sono improprie (lo ha notato, di recente, Nando Pagnoncelli). Trascurano il peso, dominante, dei reati che minacciano l’intimità, il domicilio, l’incolumità delle persone. Riassunti nelle definizioni di “microcriminalità” o di criminalità “comune”. Ma per la gente “comune” questi reati, commessi negli ambienti di vita quotidiana, costituiscono, la vera “macro-criminalità”. Gli stessi omicidi volontari (dimezzati dal 1990 al 2005: da 1695 a 601: Rapporto Eures-Ansa, 2006), d’altronde, avvengono soprattutto nella cerchia familiare e amicale (40%). Il senso di insicurezza è, quindi, cresciuto perché i reati di gran lunga più diffusi ci insidiano direttamente, da vicino. Personalmente. Noi, la nostra casa, i nostri cari.

2. Anche per quel che riguarda le responsabilità dell’informazione televisiva, occorre precisare. Di certo, la televisione è, oggi, il primo e principale mezzo di informazione. L’87% degli italiani afferma di seguire, ogni giorno, le notizie in tivù (Demos-coop, novembre 2007). Tuttavia, lo spazio dedicato dai telegiornali alla “nera” è limitato. Si va dal 2-3% del tempo complessivo, nel 2007, su Tg1, Tg3 e Tg4, fino al 4-5% sul Tg2 e su Studio Aperto (dati Geca Italia). Una frazione troppo piccola per incolparli di aver distorto la percezione degli italiani. E’, semmai, utile allargare il campo all’intero sistema della comunicazione. Per quel che riguarda la televisione: ai rotocalchi di approfondimento, ai programmi che miscelano informazione e intrattenimento, alle trasmissioni popolari del pomeriggio e del mattino. E’ qui che i delitti di vita quotidiana occupano maggiore spazio. Al punto da divenire sequel di successo.

Inoltre, non dobbiamo trascurare gli altri media. I quotidiani e i settimanali. Non solo perché si rivolgono a un settore particolarmente informato. Ma perché, da quando si è affermata l’informazione su Internet, intervengono sui fatti, in tempo reale. Perché, inoltre, i giornalisti televisivi impostano i notiziari incalzati (e influenzati) dalle edizioni on-line dei quotidiani e dai tg delle reti satellitari (Sky e Rai-News 24, in primo luogo).

3. Tuttavia, ricondurre lo scarto fra realtà ed emozione al ruolo (e alle responsabilità) dell’informazione significa ignorare almeno altri due “colpevoli”. Altrettanto significativi. Il primo è il cambiamento del paesaggio urbano e sociale. Il rarefarsi delle reti di solidarietà, dei contatti personali, della fiducia. Le risorse che rendevano più “sicuro” il mondo intorno a noi. Ne abbiamo parlato altre volte: quando non conosciamo chi abita intorno a noi, viviamo chiusi in casa, blindati (porte, finestre, mura), armati, difesi da cani da guardia che ci separano dagli altri; quando il territorio circostante diventa inguardabile e inospitale.

Allora, è difficile non sentirsi inquieti, impauriti. Sperduti. Allora i media diventano sempre più importanti, perché costituiscono il principale, spesso unico canale di relazione con il mondo. E trasferiscono in casa nostra il mondo, con i suoi molteplici motivi di tensione e di paura.

Il secondo “colpevole” è l’ambiente che, nei giorni scorsi, ha “chiamato a rapporto” l’informazione radiotelevisiva: la classe politica. Perché, da un lato, usa la sicurezza e l’insicurezza come armi improprie, per catturare consensi. Alimentando e usando le paure come bandiere e, spesso, come clave. Mentre, dall’altro, non è estranea al sistema mediatico. Al contrario. I politici: sui media, li incontri ovunque.

Soprattutto in tivù. Quando si discute di immigrazione e del costo della vita. Quando irrompono i rifiuti di Napoli. Ma anche nella saga infinita dei delitti “di fuori porta”. A Cogne, Garlasco, Erba, Perugia. I politici: pronti a tutto pur di conquistare qualche minuto sugli schermi. Basterebbe chiedere ai direttori delle testate radiotelevisive (giornalistiche e non) quante telefonate ricevano, ogni giorno, da politici (destra o sinistra, non c’è differenza) bramosi di esternare i loro sentimenti e le loro opinioni sui fatti del giorno. In altri termini: di apparire.

Dietro allo scarto fra le misure e la percezione dell’insicurezza, quindi, non ci sono i tg o la tivù in sé. Ma il diverso rapporto fra comunicazione, informazione e vita quotidiana. Che è divenuto diretto e immediato. Le informazioni fluiscono in tempo reale e raggiungono le persone in ogni momento. Per cui, viviamo in un eterno presente. Gli eventi fluiscono, senza soluzione di continuità. Qualcuno sovrasta gli altri. Per una settimana, un giorno, magari un solo minuto.

Il ruolo di chi fa informazione, nel mondo dell’iperinformazione, per questo, è determinante. Nella babele di notizie, che fluiscono senza sosta, i media fissano il punto su cui si concentra l’attenzione di tutti. Come una torcia nella notte – ha suggerito Zygmunt Bauman – illuminano un fatto, un evento, una persona. Assecondati, anzi, sollecitati dal sistema politico, che da tempo ha sostituito la partecipazione con la comunicazione. E ha bisogno di dare un volto, un’identità, un nome all’incertezza incerta che alita nell’aria. E inquieta tutti. Certo, la realtà conta, ci mancherebbe. Ma, per “imporsi”, deve bucare la notte.

Incendiare il buio. Altrimenti la notte, dopo un po’, cala di nuovo e inghiotte tutto e tutti. E’ questo il pericolo da evitare: che la “percezione” sia l’unico “fatto” significativo. Come ha rammentato Ezio Mauro, nel suo viaggio a Torino, intorno alla Thyssen. Dove ha incontrato gli operai. Invisibili, da tempo. Per diventare visibili hanno dovuto bruciare. In sette. Come torce. Ora che si sono “spenti”, c’è il rischio che il buio li inghiotta di nuovo.

la guerra liberista giovedì, Gen 24 2008 

Non ho intenzione muovere una critica all’economia liberale in quanto tale. Vi sono autorevoli prese di posizione in merito che condivido pienamente, penso ad esempio a Guido Rossi e al suo recente “Il mercato dell’azzardo”. Vorrei però sottolineare che nell’ambito dell’economia neo liberale il concetto di “guerra” sta avendo una estensione mai avuta prima; e ciò sembra diventare – come ha fatto notare Patrick Bouvard, un sagace consulente della francese Shared Value, in una sua nota per RHinfo – “una realtà normale e benefica al servizio della popolazione”. Perché, egli soggiunge, si può pure pensare che la concorrenza esacerbata debba essere posta (teoricamente) al servizio del cliente, che si accomuni a una competizione senza respiro; ma se i comportamenti che la sostengono portano a parlare di “guerra” non è certo per semplice deriva semantica.
Sembra che la “guerra” liberista provochi effettivamente gli stessi effetti della guerra classica, annota Patrick Bouvard; sottolineando che in questo caso non si può parlare di economia liberale ma piuttosto di liberalismo selvaggio che sconvolge le regole dello stato di diritto e tende al profitto attraverso una deregulation ad ampio spettro che sfocia inevitabilmente in uno stato di “guerra”. Ecco quindi l’emergere di condizioni altamente conflittuali che non si può o non si vuole risolvere attraverso la negoziazione; una violenza che mira soprattutto alla “distruzione” dell’avversario; una volontà di egemonia e di dominio che preclude al “nemico” libertà di movimenti ; un praticare artifici per sbarazzarsi facilmente dall’ingombro di considerazioni morali e sociali che riguardano di solito le relazioni pacifiche tra le persone.

i nostri limiti lunedì, Gen 21 2008 

Da parecchio tempo siamo in molti ad avere l’impressione che la società stia diventando più violenta e non pensiamo tanto alla criminalità organizzata o al conflitto armato, quanto all’incattivirsi delle relazioni tra le persone. Non dimenticando quei fenomeni di aggregazione, quelle associazioni di potere o lobby – segrete o palesi – che agiscono esclusivamente per gestire potere e guadagno.
Assieme a tutti i vantaggi connessi all’evoluzione dei mercati e delle tecnologie, occorre tener conto anche dei rischi che ne derivano; in questo caso, consapevole che nessuno può sentirsi autorizzato a proporre spiegazioni esaustive, voglio tentare qualche riflessione provando ad applicare a questo argomento attenzione e senso di responsabilità con la stessa diligenza con cui tutti noi cerchiamo, nei limiti delle nostre possibilità, di governare per il meglio le cose importanti del nostro lavoro.
Le teorie più diffuse sull’aggressività e la violenza affrontano il problema sotto la categoria della devianza, cogliendo spesso unicamente la dimensione psicologica della persona oppure l’innatismo tipico della specie animale; oppure fanno risalire le origini a colpe più o meno evidenti della famiglia, della scuola, ecc. Limiterò il campo di osservazione al “mercato” ( si pensi alla ondata di marketing “estremi” o “no limits”) e ai fattori non direttamente individuali che tuttavia “modellano” le relazioni e le dinamiche relazionali. Mi fermerò a considerare brevemente che il fenomeno potrebbe avere origine ed espandersi con una certa rapidità proprio a partire dal mondo del lavoro; più precisamente dai linguaggi e dagli slogan che improntano –da oltre un decennio – il mondo della produzione e del consumo, che direttamente o indirettamente influenzano la organizzazione aziendale e di conseguenza i comportamenti delle persone.
Queste considerazioni potrebbero risultare limitate, non esaustive, riduttive. Tuttavia sembrano opportune per osservare in modo non ortodosso dati di fatto che possono aiutarci a comprendere quanto sia urgente ridare importanza ai valori della persona e alla capacità individuale di autocontrollo dei propri impulsi e delle proprie azioni.

Il lavoro operaio all’inferno? domenica, Gen 20 2008 

Dalla pagina “Lettere & Commenti” – la Repubblica del 16 gennaio scorso . ho ritagliato questa lettera che mette in luce una nuova “civiltà” della gestione delle risorse umane e, nel caso specifico, degli operai. Quel modo di fare non mi è nuovo, ricordo che recentemente anche in una azienda della provincia di Milano è stato segnalato un comportamento organizzativo simile e gli operai scioperarono proprio per mettere in risalto quella “intelligente” scelta aziendale.
Trascrivo la lettera di GB, che mi porta a considerare la inumanità di certi comportamenti e la necessità di restituire dignità umana al lavoro.

Sono un operaio di 34anni, sto scioperando insieme ai metalmeccanici per il contratto di lavoro e tocco con mano che non interessiamo più a nessuno. Anche il rispetto del nostro lavoro è ridotto ai minimi termini. Pensate che a Melfi e Pomigliano d’Arco “è vietato” parlare in gruppi di persone superiori alle tre unità, e si può prendere un contestazione disciplinare solo perché invece che recarsi al bagno a fare la pipì si va a bere. (Gianni Bortolini)

Crisi di coppia e crisi di identità sabato, Gen 19 2008 

Capita nella vita di ciascuno di trovarsi sul punto di dover prendere una iniziativa di cambiamento importante, oppure essere già nel guado della decisione presa o, ancora, in una situazione in cui – indipendentemente dal proprio volere – si viene messi in crisi, ci si trova ad affrontare una situazione più o meno caotica che sfida le nostre capacità e fa affiorare i nostri limiti. Si può dire che tutto ciò appare in modo funzionale ogni qual volta nella nostra vita accadono degli eventi nuovi intrinsecamente legati alla crescita di ogni individuo e connessi a specifiche tappe biologiche. Sembrerebbe strano ma molte persone lo avvertono anche nella situazione venutasi a creare successivamente al trasloco della loro abitazione.
Ci sono però momenti più drammatici, come una grave malattia, la perdita di una persona cara o un cambiamento repentino nel lavoro, in cui avanzano improvvise delle violente spinte al cambiamento che possono addirittura arrivare a minacciare la salute delle persone. In questo caso irrompono con molta potenza sentimenti quali la pena, la sofferenza, il dubbio, la paura, la vergogna, la colpa… Moti dell’anima che in modo pesante ci invadono, ci investono come una tempesta, fanno perdere l’orientamento come nella nebbia. Vorremmo avere un punto di riferimento, oppure un luogo in cui riposarsi, ritemprarsi, riconoscere se stessi e le proprie capacità di salvezza, di salute o di riuscita. Desidereremmo risorgere…
I casi in cui l’umanità incontra queste “occasioni” sono veramente molti e possono presentarsi in modo favorevole o sfavorevole, coinvolgere una o più persone. Momenti che vengono superati con una certa naturalezza ed altri molto più faticosi e penosi. Spesso i drammi individuali coinvolgono altre persone che in forma più o meno accentuata riflettono ulteriori difficoltà.
Karl Jaspers ha definito la crisi come un punto di passaggio dove “tutto subisce un cambiamento subitaneo dal quale l’individuo esce trasformato, sia dando origine a una nuova risoluzione, sia andando verso la decadenza. La storia della vita non segue il corso uniforme del tempo, struttura il proprio tempo qualitativamente, spinge lo sviluppo delle esperienze a quell’estremo che rende inevitabile la decisione”.*
A volte la decisione non arriva immediata, è frutto di un lungo macerarsi, di un travaglio che molto spesso rimpalla tra vergogna (come turbamento o senso di indegnità o incapacità avvertito dalla persona che teme di ricevere una disapprovazione della sua condotta) e colpa (come sentimento di aver trasgredito involontariamente a una regola) con collaterali comportamenti di negazione e/o di iperdrammatizzazione.
Tale è, a grandi linee, lo scenario della crisi-cambiamento che, nel decorso meno favorevole per un individuo, può manifestarsi come perdita “di un mondo”, nei casi in cui è ancora possibile elaborare il lutto, oppure come perdita “del mondo” in quelle occasioni in cui prevale la catastrofe che spinge alla erranza.
Se, come veniva accennato prima, la perdita del lavoro può essere vissuta come fallimento del proprio progetto di vita e crisi di identità, tanto da arrivare a colpire la salute delle persone, il fallimento del progetto di una coppia genitoriale può essere altrettanto distruttivo e spesso le persone vivono grosse difficoltà o addirittura restano a lungo tempo incapaci a “far fronte” a questa situazione.
Le separazioni, non infrequenti in seguito alle difficoltà di rapporto e alle modificazioni organizzative-ambientali vissute dalle coppie, rappresentano un ulteriore problema sia per i membri della famiglia, sia per gli stessi mediatori familiari costretti, a volte, a confrontarsi con persone che agiscono e pensano sulla base di una backgrground (identità) di cultura, norme e consuetudini, ruoli di genere ecc., spesso di difficile negoziazione in quanto non ri-conosciuti da loro stessi.

Combattere il male riconoscendo che appartiene alla natura umana giovedì, Gen 17 2008 

San Francisco – Philip G. Zimbardo, psicologo sociale ed ex presidente della American Psychological Association, si è fatto una reputazione studiando come le persone nascondono il bene e il male che è in loro e le condizioni nelle quali questi vengono espressi.
Il suo Esperimento carcerario di Stanford del 1971 (al quale i libri di testo scientifici fanno riferimento come S.P.E.), ha mostrato come sia possibile usare anonimato, conformismo e noia per indurre un comportamento sadico in studenti altrimenti sani. Più recentemente Zimbardo, che ha 74 anni, ha studiato come decisioni politiche e scelte individuali hanno portato agli abusi nella prigione di Abu Ghraib in Iraq.
Il percorso che lo ha condotto da Stanford ad Abu Ghraib è descritto nel suo nuovo libro: The Lucifer Effect. Understanding How Good People Turn Evil.

D. Potrebbe spiegare l’esperimento carcerario di Stanford per quelli che non lo hanno studiato all’università?

R. Nell’estate del 1971 mettemmo su una finta prigione nel campus dell’università di Stanford. Abbiamo preso 23 volontari, dividendoli in due gruppi. Si trattava di giovani normali, di studenti. Abbiamo chiesto loro di comportarsi come avrebbero fatto dei “prigionieri” e delle “guardie in n contesto carcerario. L’esperimento è durato due settimane.
Alla fine del primo giorno non era successo quasi nulla. Ma il secondo giorno c’era stata una rivolta dei prigionieri. Le guardie sono venute da me: “Cosa facciamo?”. “E’ la vostra prigione”, ho detto loro mettendoli in guardia contro atti di violenza fisica. Le guardie allora sono passate rapidamente alle punizioni psicologiche, ma ci sono stati anche casi di maltrattamenti fisici. Nei giorni seguenti, le gurdie sono diventate persino più sadiche, negando ai prigionieri cibo, acqua e sonno, colpendoli con il getto degli estintori, buttando le loro coperte nel pattume, spogliandoli e trascinando i ribelli nel cortile. A che livello arrivarono? Le guardie ordinarono ai prigionieri di simulare atti di sodomia. Perché? Perché le guardie erano annoiate. La noia è un forte movente per il male. Non so sino che punto la situazione sarebbe potuta peggiorare.

D: Quale è stata la sua prima reazione nel vedere le foto di Abu Graib?

R: Sono rimasto colpito, ma non sorpreso. A darmi fastidio è stato soprattutto il fatto che il Pentagono abbia voluto dare la colpa a “poche mele marce”. Grazie al nostro esperimento so che mettendo delle mele sane in una situazione di marciume si ottengono mele marce. E’ per questo che volevo intervenire come perito al processo del sergente Chip Frederick che per il suo ruolo nelle violenze ad Abu Graib è stato condannato a otto anni. Frederick era il riservista dell’esercitona cui era stato affidato il turno di notte al reparto 1°, dove si sono verificati i maltrattamenti. Frederick ha detto: “Quello che ho fatto è sbagliato e non capisco perché l’ho fatto”.

D. Lei lo capisce?

R: Sì. La situazione lo aveva totalmente corrotto. Quando la sua divisione di riservisti fu assegnata ad Abu Graib, Frederick era come uno dei nostri giovani dello S.P.E. tre mesi dopo, era come una delle nostre peggiori guardie.

D: Lei continua a dire “la situazione” per descrivere le cause all’origine delle trasgressioni. A che si riferisce?

R. Al fatto che il comportamento umano è nfluenzato più da fattori esterni che interni. La “situazione” è l’ambiente esterno. L’ambiente interno sono i geni, la storia morale, l’educazione religiosa. Ci sono volte n cui le circostanze esterne possono sopraffarci e facciamo cose alle quali non avevamo mai pensato. Se non si è consapevoli del fatto che questo possa accadere è possibile lasciarsi sedurre dal male. Abbiamo bisogno di un vaccino contro la nostra potenziale capacità di compiere del male. Dobbiamo riconoscerne l’esistenza, solo allora potremmo cambiarla.

(questo è un articolo di Claudia Dreifus comparso su The New York Times (la Repubblica), lunedì 16 aprile 2007, pag. VI

Veterani sempre più violenti lunedì, Gen 14 2008 

colto da: http://www.rtsi.ch/informazione/welcome.cfm?idChannel=2330&idModule=3645&idSection=24994&idPage=0&idContext=1

Negli USA aumentata dell’89% la sindrome da “violenza di ritorno”
13.01.2008, 17:30 | La violenza della guerra entra nel sangue a tal punto che a conflitto terminato per alcuni soldati statunitensi è difficile smettere di uccidere: almeno 121 veterani impegnati in Iraq o in Afghanistan, una volta rientrati in patria hanno sicuramente ammazzato qualcuno o sono formalmente accusati di averlo fatto, mentre un numero imprecisato di militari sono coinvolti in altri 349 casi di omicidio.
Lo rivela domenica il New York Times, che in prima pagina pubblica i risultati di una sua inchiesta, basata sulle informazioni raccolte attraverso giornali locali, rapporti di polizia, documenti ufficiali sia di tipo militare sia giudiziario. Dall’indagine emerge un dato impressionante: il fenomeno della cosiddetta “violenza di ritorno” è cresciuto dell’ 89%, rispetto ai periodi precedenti, da quando sono cominciate le guerre in Iraq e in Afghanistan.
Il New York Times ha chiesto ragione al riguardo al Dipartimento della Difesa USA, “ma i dirigenti interpellati non hanno immediatamente risposto mentre l’Agenzia militare ha declinato l’invito”, scrive il quotidiano. Un portavoce dell’esercito, però, il colonnello Les Melnyk ha contestato sia le premesse, sia il metodo dell’inchiesta. Per esempio, sostiene il graduato, sono stati messi insieme casi di omicidio colposo con casi di omicidio preterintenzionale, casi di omicidio di primo grado con casi di incidenti stradali. Per questo motivo, conclude, i risultati dell’inchiesta appaiono essere clamorosi.
Resta il fatto che, secondo il quotidiano, “né il Pentagono, né il Dipartimento di Giustizia provvedono a monitorare delitti di questo tipo”, nonostante siano pubblicamente trattati nei tribunali. Tra i diversi eventi citati, figura quello di un padre di 20 anni ricoverato per le ferite riportate in Iraq che ha trucidato la figlia di 2 anni, oppure quelli (numerosi) di fidanzate o moglie uccise durante liti.

La bandiera (dell’umanità) issata al contrario lunedì, Gen 14 2008 

“Non si mettono mai le bandiere al contrario: è segno che la nazione rappresentata sta chiedendo aiuto”.
Questa è l’affermazione convinta e devota di Hank, orgoglioso veterano dell’esercito, padre patriottico alla ricerca del figlio sparito da una settimana dopo essere tornato in licenza dall’Iraq. Sarà Hank stesso a dover issare al contrario la Bandiera a stelle e strisce nel finale struggente del film Nella valle di Elah di Paul Haggis.
Il regista si è ispirato ad una storia vera pubblicata sulle pagine di Playboy da Mark Boal che in un articolo riportò alla luce l’omicidio di un giovane soldato appena rientrato dall’Iraq.
Sembrava un caso isolato … Oggi la superpotenza continua a piangere anche quei suoi figli che sembrano scomparire in un male di vivere senza soluzione.
Una bandiera al contrario, che ci spinge a riflettere. Sembra voler dire che dalla guerra non si torna mai e che la violenza porta a un imbarbarimento senza ritorno.
Le cronache ci stanno abituando all’idea: chi si trova ad esercitare il potere con il terrore tende a farlo anche una volta tornato a casa.

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