Combattere il male riconoscendo che appartiene alla natura umana giovedì, Gen 17 2008 

San Francisco – Philip G. Zimbardo, psicologo sociale ed ex presidente della American Psychological Association, si è fatto una reputazione studiando come le persone nascondono il bene e il male che è in loro e le condizioni nelle quali questi vengono espressi.
Il suo Esperimento carcerario di Stanford del 1971 (al quale i libri di testo scientifici fanno riferimento come S.P.E.), ha mostrato come sia possibile usare anonimato, conformismo e noia per indurre un comportamento sadico in studenti altrimenti sani. Più recentemente Zimbardo, che ha 74 anni, ha studiato come decisioni politiche e scelte individuali hanno portato agli abusi nella prigione di Abu Ghraib in Iraq.
Il percorso che lo ha condotto da Stanford ad Abu Ghraib è descritto nel suo nuovo libro: The Lucifer Effect. Understanding How Good People Turn Evil.

D. Potrebbe spiegare l’esperimento carcerario di Stanford per quelli che non lo hanno studiato all’università?

R. Nell’estate del 1971 mettemmo su una finta prigione nel campus dell’università di Stanford. Abbiamo preso 23 volontari, dividendoli in due gruppi. Si trattava di giovani normali, di studenti. Abbiamo chiesto loro di comportarsi come avrebbero fatto dei “prigionieri” e delle “guardie in n contesto carcerario. L’esperimento è durato due settimane.
Alla fine del primo giorno non era successo quasi nulla. Ma il secondo giorno c’era stata una rivolta dei prigionieri. Le guardie sono venute da me: “Cosa facciamo?”. “E’ la vostra prigione”, ho detto loro mettendoli in guardia contro atti di violenza fisica. Le guardie allora sono passate rapidamente alle punizioni psicologiche, ma ci sono stati anche casi di maltrattamenti fisici. Nei giorni seguenti, le gurdie sono diventate persino più sadiche, negando ai prigionieri cibo, acqua e sonno, colpendoli con il getto degli estintori, buttando le loro coperte nel pattume, spogliandoli e trascinando i ribelli nel cortile. A che livello arrivarono? Le guardie ordinarono ai prigionieri di simulare atti di sodomia. Perché? Perché le guardie erano annoiate. La noia è un forte movente per il male. Non so sino che punto la situazione sarebbe potuta peggiorare.

D: Quale è stata la sua prima reazione nel vedere le foto di Abu Graib?

R: Sono rimasto colpito, ma non sorpreso. A darmi fastidio è stato soprattutto il fatto che il Pentagono abbia voluto dare la colpa a “poche mele marce”. Grazie al nostro esperimento so che mettendo delle mele sane in una situazione di marciume si ottengono mele marce. E’ per questo che volevo intervenire come perito al processo del sergente Chip Frederick che per il suo ruolo nelle violenze ad Abu Graib è stato condannato a otto anni. Frederick era il riservista dell’esercitona cui era stato affidato il turno di notte al reparto 1°, dove si sono verificati i maltrattamenti. Frederick ha detto: “Quello che ho fatto è sbagliato e non capisco perché l’ho fatto”.

D. Lei lo capisce?

R: Sì. La situazione lo aveva totalmente corrotto. Quando la sua divisione di riservisti fu assegnata ad Abu Graib, Frederick era come uno dei nostri giovani dello S.P.E. tre mesi dopo, era come una delle nostre peggiori guardie.

D: Lei continua a dire “la situazione” per descrivere le cause all’origine delle trasgressioni. A che si riferisce?

R. Al fatto che il comportamento umano è nfluenzato più da fattori esterni che interni. La “situazione” è l’ambiente esterno. L’ambiente interno sono i geni, la storia morale, l’educazione religiosa. Ci sono volte n cui le circostanze esterne possono sopraffarci e facciamo cose alle quali non avevamo mai pensato. Se non si è consapevoli del fatto che questo possa accadere è possibile lasciarsi sedurre dal male. Abbiamo bisogno di un vaccino contro la nostra potenziale capacità di compiere del male. Dobbiamo riconoscerne l’esistenza, solo allora potremmo cambiarla.

(questo è un articolo di Claudia Dreifus comparso su The New York Times (la Repubblica), lunedì 16 aprile 2007, pag. VI

Veterani sempre più violenti lunedì, Gen 14 2008 

colto da: http://www.rtsi.ch/informazione/welcome.cfm?idChannel=2330&idModule=3645&idSection=24994&idPage=0&idContext=1

Negli USA aumentata dell’89% la sindrome da “violenza di ritorno”
13.01.2008, 17:30 | La violenza della guerra entra nel sangue a tal punto che a conflitto terminato per alcuni soldati statunitensi è difficile smettere di uccidere: almeno 121 veterani impegnati in Iraq o in Afghanistan, una volta rientrati in patria hanno sicuramente ammazzato qualcuno o sono formalmente accusati di averlo fatto, mentre un numero imprecisato di militari sono coinvolti in altri 349 casi di omicidio.
Lo rivela domenica il New York Times, che in prima pagina pubblica i risultati di una sua inchiesta, basata sulle informazioni raccolte attraverso giornali locali, rapporti di polizia, documenti ufficiali sia di tipo militare sia giudiziario. Dall’indagine emerge un dato impressionante: il fenomeno della cosiddetta “violenza di ritorno” è cresciuto dell’ 89%, rispetto ai periodi precedenti, da quando sono cominciate le guerre in Iraq e in Afghanistan.
Il New York Times ha chiesto ragione al riguardo al Dipartimento della Difesa USA, “ma i dirigenti interpellati non hanno immediatamente risposto mentre l’Agenzia militare ha declinato l’invito”, scrive il quotidiano. Un portavoce dell’esercito, però, il colonnello Les Melnyk ha contestato sia le premesse, sia il metodo dell’inchiesta. Per esempio, sostiene il graduato, sono stati messi insieme casi di omicidio colposo con casi di omicidio preterintenzionale, casi di omicidio di primo grado con casi di incidenti stradali. Per questo motivo, conclude, i risultati dell’inchiesta appaiono essere clamorosi.
Resta il fatto che, secondo il quotidiano, “né il Pentagono, né il Dipartimento di Giustizia provvedono a monitorare delitti di questo tipo”, nonostante siano pubblicamente trattati nei tribunali. Tra i diversi eventi citati, figura quello di un padre di 20 anni ricoverato per le ferite riportate in Iraq che ha trucidato la figlia di 2 anni, oppure quelli (numerosi) di fidanzate o moglie uccise durante liti.

La bandiera (dell’umanità) issata al contrario lunedì, Gen 14 2008 

“Non si mettono mai le bandiere al contrario: è segno che la nazione rappresentata sta chiedendo aiuto”.
Questa è l’affermazione convinta e devota di Hank, orgoglioso veterano dell’esercito, padre patriottico alla ricerca del figlio sparito da una settimana dopo essere tornato in licenza dall’Iraq. Sarà Hank stesso a dover issare al contrario la Bandiera a stelle e strisce nel finale struggente del film Nella valle di Elah di Paul Haggis.
Il regista si è ispirato ad una storia vera pubblicata sulle pagine di Playboy da Mark Boal che in un articolo riportò alla luce l’omicidio di un giovane soldato appena rientrato dall’Iraq.
Sembrava un caso isolato … Oggi la superpotenza continua a piangere anche quei suoi figli che sembrano scomparire in un male di vivere senza soluzione.
Una bandiera al contrario, che ci spinge a riflettere. Sembra voler dire che dalla guerra non si torna mai e che la violenza porta a un imbarbarimento senza ritorno.
Le cronache ci stanno abituando all’idea: chi si trova ad esercitare il potere con il terrore tende a farlo anche una volta tornato a casa.

A quale specifico “tessere” (la pace) decido di dar corso e a quali devo rinunciare per mia attuale indisponibilità e/o impreparazione. domenica, Gen 13 2008 

Rimango convinto che ogni processo evolutivo inizi, soprattutto per quanto riguarda gli adulti, da un consapevole processo di crescita personale e contemporaneamente dall’accettazione di naturali processi di cambiamento. Io posso cambiare me. Incontro difficoltà e rischi d’insuccesso proporzionalmente crescenti se volessi cambiare il mondo in generale e non il “mio” mondo. Con convinzione e responsabilità. Accettando anche le realistiche e, direi normali, batoste legate ai miei probabili insuccessi.
È a partire da quest’esperienza che potrò portare il mio contributo nella società, è il mio patrimonio individuale che potrà essere accomunato con le diversità di esperienze degli Altri con i quali voglio tessere una tela più grande del mio personale tessuto biografico.
Dovrei rinunciare a fare questo, quindi prendere atto della mia attuale indisponibilità o incapacità solo se avessi paura che “un nuovo mondo è possibile”, solo se pensassi che nulla potrebbe cambiare; che lo status quo attuale possa rimanere inalterato.
Io però non ho paura del dialogo e del confronto. Credo – condividendo una affermazione di Enzo Bianchi, che “affinché io trovi più verità, ho bisogno del confronto con la verità degli altri: con la loro verità essi aiutano la mia”. Non c’è da avere paura di questo dialogo.

Donare quia absurdum giovedì, Gen 10 2008 

IL DONO E’ SENZA PERCHE’
Barbara Spinelli
La Stampa, 23-12-2007

E’ naturale che giornali e televisioni si affollino, da molti giorni, di parole e immagini sul Natale che viene e in modo speciale sul rito associato da tempo immemoriale alla divina festa: parlo di quel che vien chiamato lo scambio dei doni. Vien chiamato così ed è già una stortura: perché nessun dono, se è dono, è accostabile allo scambiare, allo stipulare contratti, a un dare condizionato. È un evento che crea società stretta oltre che promiscuità privata, ma, come accade per l’uomo che in San Paolo vive presso Dio, il prodigare è della società e non della società, usa il mondo come se non l’usasse appieno. È qualcosa di misterioso, di estraneo a ogni mercanteggiare. È estraneo perfino alla fiducia, che è ingrediente cruciale del vivere comune. Non si regala a causa della fiducia, per il semplice motivo che il dono è senza perché. È come la rosa del mistico Angelus Silesius: «La rosa è senza un perché, ohne Warum; fiorisce perché fiorisce, non chiede conto di se stessa, non chiede se viene vista». Pulire le parole ed eliminarle se sbilenche o corruttrici è tra le attività più belle della mente, e guardando giornali e televisioni delle ultime settimane è purificazione indispensabile: tanto grande è la stortura che viviamo. Il culmine è stato raggiunto, secondo me, qualche giorno fa sul telegiornale di Raiuno, in un brioso servizio sui regali natalizi spiacevoli o infastidenti. L’ideatore del reportage voleva probabilmente esser spigliato, anticonformista, interessante, originale. È come avesse voluto trasmettere una sua verità sfrontata, rompere chissà quale tabù. «Adesso vi diciamo sui regali di Natale qualcosa che vi compiacerà. Qualcosa che in tanti pensate silenziosamente ma che io oso dire a voce alta: non tutti i regali sono graditi, anzi alcuni sono enormemente sgraditi». Seguiva un elenco di regali poco apprezzati perché noiosi, monotoni, ripetitivi: la sciarpa per esempio provocherebbe suprema noia e denoterebbe poca fantasia. Non ricordo l’intera lista: nella mente m’è restata impigliata la sciarpa. Ci sono regali in e altri out. A questo punto partiva una di quelle inchieste a caldo, con i passanti che dicono la loro sui regali scorretti che ricevono o che paventano: uno alzava gli occhi al cielo con tedio ammonitore; l’altro si riprometteva di scambiarli con doni meno banali, meno inutili; un altro ancora meditava di riciclare strenne e pensieri vendendoli online. Mi sono detta che le anime di queste persone erano come intirizzite, già morte. Come quel dannato – Branca Doria, traditore degli ospiti – che in Dante già è rovinato sotto la crudele crosta della morte nonostante sulla terra appaia ancora vivo, e mangi e beva e dorma e vesta panni. Il testo più luminoso sul dono a mio parere l’ha scritto Adorno, nel paragrafo 21 di Minima moralia. Vale la pena leggerlo, rileggerlo, e regalarlo perché questa sì è idea squisita. Perché parla della nostra capacità o incapacità di saper donare – oltre che di accogliere doni – e della sorpresa che è l’incontro con volti che durante l’anno ci son stati prossimi o meno prossimi. Persone che apprendiamo a guardare, che ci esercitiamo a ricordare: giacché ogni presente offerto oggi è un ricordo nel domani. Il donare infatti è qualcosa che si disimpara. Secondo lo scrittore è già disimparato e inesorabilmente entrato in decadenza a cominciare dal momento in cui sono apparsi quegli strani negozi – proliferano come i fast food – che sfoggiano all’ingresso l’insegna: «Articoli da Regalo». Gli Articoli da Regalo pensano al posto nostro il pensiero che non abbiamo: l’idea è che tu compri dieci articoli alla rinfusa e solo dopo ti figuri i destinatari. In realtà l’idea – meglio: la trovata – è escogitata per chi non sa assolutamente cosa regalare, essendo che non ha voglia di donare. Lo fa per necessità, per dovere. Il piacere è seppellito. Il donare autentico non ha nulla di necessario, anche se comporta una fatica che tuttavia arde benevola. Più è inutile, a volte, più è regale. Il vero regalare – così in Minima moralia – è provare felicità nell’immaginare la felicità di colui che riceverà. Significa scegliere, sprecare le ore nella scelta, dunque elucubrare, fantasticare sull’altro e su com’è fatto. In fondo significa regalare tempo, oltre a oggetti, e questo tempo sperperarlo. Significa uscire dal proprio tracciato, non concentrarsi su di sé ma pensare l’altro come soggetto, come fine anziché mezzo. Il donare contraddice e viola lo scambio. La frase più terribile è dire, quando si porge un pacchetto: «Questo regalo se vuoi lo puoi scambiare con qualsiasi altro di tuo gradimento». (Non meno tremende sono le liste-regali: tu metti i soldi in una sorta di vasca, e al resto pensano tutti tranne tu che pure potresti, magari vorresti. È la cancellazione del regalo). Deliziosa è la vecchia massima secondo cui a caval donato non si guarda in bocca. Ricordo mia madre che faceva disegnini di un cavallo con immense fauci spalancate: davanti a esse eravamo ritratti noi bambini che blasfemi scrutavamo-obiettavamo. Guardare dentro la bocca del cavallo è offensivo e mesto. Non sei sotto l’abete natalizio né a fianco della greppia sacra ma al mercato, con qualcuno che ti urla la sua proposta: «Non ti piace questo che t’ho dato? Prendi qualsiasi cosa purché il prezzo sia quello. Fai quel che vuoi tanto a me non importa nulla». Vero è che in questi casi il beneficiato ha almeno la possibilità di fare a se stesso un regalo. Ma la proposta resta agli antipodi del regalare. Il regalo, quale che sia, fa bene a chi lo riceve ma ne fa uno, immenso, anche a chi regala. Donare è una disposizione dell’animo cordiale, è un aprire incondizionatamente l’uscio all’altro. È un atto di fiducia ma nella sua gratuità l’oltrepassa. Chi non sa regalare o decide di non far più doni, anche senza volerlo è caduto preda del fluire del dono in scambio. Regalare è un aiuto a uscire dai recinti della propria interiorità, a fare vuoto dentro di sé per aprire spazi all’altro e alle cose per l’altro. Ogni relazione non deformata, ogni esperienza di riconciliazione nella vita organica, conclude Adorno, è un donare. Chi ne è incapace perché ragiona secondo logiche consequenziali diventa una cosa e si raggela. Il donare è un’esperienza eminentemente religiosa, se vissuto con profondità. Donare quia absurdum, come il credere, sfida la logica della conseguenza. Non è casuale che il più gran numero di regali s’accumuli il giorno della Natività di Gesù, in cui tutto è donare, è dare se stesso. Tutto, anche quel che lo circondò. Fu dono l’obbedienza di Giuseppe, che accolse la sposa ingravidata da Dio. Fu dono Giovanni Battista, che accettò di farsi piccolo perché Gesù fosse grande. Fu dono Maria: non c’è quasi dipinto in cui il suo viso non esprima l’indicibile tristezza del presentimento. Nel quadro di Lorenzo Lotto a Recanati addirittura fugge spaventata con un gatto, davanti all’angelo annunciante. Donare è un’esperienza religiosa perché è gesto assurdo. Non sappiamo cosa ne sarà, e però lo facciamo. Non sappiamo quanto durerà. È la rosa di Silesius. Nella sconvolgente lettera dalla prigionia, Ingrid Betancourt parla come nel salmo 23: «Vivo come morta. Non ho bisogno di nulla, e almeno son libera di desideri». Proprio questo le dà la forza di dire no ai carcerieri. Le dà la forza di pensare ai figli e all’unico libro cui ha diritto – la Bibbia – come un lusso e un dono.

Quale posto occupa nella mia vita giovedì, Gen 10 2008 

Quale posto occupa nella mia vita l’atto del “tessere la pace”?
Ho voluto esporre alcuni tra i molti elementi che si potrebbero considerare per avere la possibilità di pormi una domanda. In che modo dovrei tessere affinché la “pezza” che voglio utilizzare per un’eventuale riparazione, cura o manutenzione sociale sia effettivamente adeguata al bisogno che voglio incontrare?
Da parte mia dico: a partire dal rendermi conto, dal prendere coscienza della situazione. Diventando sempre più consapevole di ciò che sta accadendo in me e intorno a me, nelle mie relazioni all’interno della famiglia, del lavoro, della città e via dicendo … Rimanendo sveglio verso i miei comportamenti e destandomi di fronte a situazioni che di solito diventano drammi, guerre, tragedie, catastrofi solo quando sono amplificati dai mezzi di comunicazione.
Certamente potrò fare qualcosa cominciando da me: dalla stima, dal rispetto, dall’immagine che mi riconosco, dal mio potere personale; dalla mia capacità di mettermi in discussione e dalla voglia di cambiare. Credo che solo da questo momento in poi possa veramente incontrare l’altro; fedele al detto evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”. Ecco perché prima ho parlato di benessere; non intendevo un mero edonismo quanto un attivo interesse morale individuale; una sensibilità etica per contrastare l’inumano che dilaga. Uno stare bene inteso come “responsabilità del bene”. Farsi carico, prender cura e prendere a cuore lo stare bene insieme e naturalmente rimanere desti di fronte al “limite” delle proprie azioni.
Sto cercando nella mia vita di mantenermi fedele a un impegno che ho preso a partire dalla mia esperienza. Imparare dagli insuccessi, provare ancora ma in modo “diverso”; cercare altre strade, altri punti di vista, studiare altre situazioni e poi … Osare. In fondo ciascuno di noi lo ha imparato da piccoli. Forse ci verrà in mente osservando la crescita di un bambino, il suo imparare a camminare, il suo parlare …
Fare in modo che gli insuccessi diventino un esercizio, un’occasione per accrescere le nostre capacità, un’opportunità di formazione continua. È proprio per questo che preferisco parlare di “limiti” e non di “sbagli” o “errori”. È la consapevolezza del limite che mi porta ad essere diverso, quando “cambio” nella prospettiva di quella frase detta all’inizio: “Fratturare quello che siamo diventati per divenire possibilità svelate”. Mettersi in discussione quindi ma rispettare i limiti personali; è anche un buon mezzo per apprendere a dosare il mio coinvolgimento e la mia implicazione; perché ignorarli molto spesso mi porta a imbarcarmi in situazioni che non desidero vivere o alle quali sono incapace di far fronte.
Ho imparato strada facendo e, con tappe diverse, sono giunto ad affinare la mia esperienza; con lo studio e soprattutto attraverso un processo di cambiamento personale che oggi guida la mia pratica professionale.
Dico allora che il “tessere la pace” si manifesta nella mia esistenza di uomo, di padre, marito, amico, nei momenti in cui sono attento ai rapporti che sto vivendo, sono capace di accettare incondizionatamente le persone che stanno con me, riesco ad agire congruentemente con i miei principi morali, sono capace di entrare in risonanza empatica con gli altri, capace di mettermi nei loro panni. Verifico il successo dei miei comportamenti quando sto bene con me stesso e stiamo bene insieme; quando c’è soddisfazione e felicità. Siamo in pace. Non è facile così come lo dico!
Nella mia attività professionale mi trovo più avvantaggiato perché mi costringo ad essere più attento, a non assopirmi o distrarmi – cosa che talvolta accade nei rapporti della consuetudine familiare, dove si manifesta di più la debolezza legata alla pigrizia e alla stanchezza.
In un caso o nell’altro, ritengo che la pace debba essere coltivata soprattutto all’interno delle relazioni umane. Nella mia attività professionale ho concentrato l’attenzione sul disagio psicologico considerandolo soprattutto come risultante di uno squilibrio socio ambientale.
Sostengo da tempo, con particolare enfasi, una necessaria formazione individuale di “igiene sociale”; perché ritengo che la cura del disagio e del disadattamento richieda un intervento di tipo “ecologico”, di riequilibrio del rapporto tra l’ambiente e l’essere umano, del rispetto profondo e incondizionato della differenza di ciascun individuo nei confronti dell’altro.
Da questi presupposti è cresciuto nel tempo l’impegno nel campo dell’apprendimento delle persone adulte, attraverso la proposta e l’attivazione di corsi di sensibilizzazione e formazione (genitori efficaci, mediazione dei conflitti, apprendimento alla cooperazione, alla relazione d’aiuto; nonché interventi d’orientamento e supervisione per organizzazioni e gruppi di lavoro a vario livello) che privilegiano in modo particolare quello che io chiamo “la manutenzione delle risorse umane”. Convinto che la fondamentale risorsa dell’umanità sia racchiusa nell’instaurare relazioni interpersonali propositive.
Allo stesso tempo mi dedico all’agevolazione della salute psicologica e del benessere delle persone attraverso due attività avviate già da alcuni anni. Una si chiama “Diversa Mente”, per la cura e l’aiuto centrati sulle persone e le famiglie nel corso di eventi critici del loro ciclo di vita; si tratta d’interventi che valorizzano le risorse dei singoli e delle famiglie che si trovano ad affrontare i problemi connessi ad eventi critici del proprio ciclo di vita; nonché in quei casi in cui si è esposti a situazioni particolarmente drammatiche e/o violente ed è facile subire le conseguenze di forti traumi
L’altra é “ Elpore th. – Psicologia delle risorse umane nelle dinamiche organizzative ” che propone interventi di orientamento, assessment , valorizzazione e formazione delle competenze individuali e socio organizzative, facilitazione del clima relazionale, gestione dello stress in “stati limite d’esercizio” delle persone e delle organizzazioni.
Mi piace considerarmi soprattutto un artigiano della manutenzione e della cura piuttosto che un uomo di scienza, sono felice di immergermi completamente nel mio lavoro e crescere insieme agli altri. Apprendo continuamente dalle persone con le quali lavoro e ringrazio loro per quanto continuano a darmi.

In genere quale posto dovrebbe occupare nella vita di tutti noi (l’attività del “tessere la pace”)? mercoledì, Gen 9 2008 

Per chi ha sperimentato sulla propria pelle la sofferenza della discordia, dei contrasti, dei conflitti, delle discussioni violente (tutto ciò che rappresenta il contrario di “pace”) e anche l’irrequietezza, l’inquietudine, lo scompiglio, l’ansia, l’angoscia, la paura di sentirsi mortificato e discriminato, diventa un impegno fondamentale della propria vita sostenere il valore e l’efficacia di comportamenti che tendono a limitare e/o contenere i danni della discordia, dell’ostilità e dei conflitti.
Sono anche convinto che, per coltivare la pace, debba essere necessario pure e soprattutto prendersi cura del nostro benessere fisico, psicologico e spirituale in ogni ambito delle nostre occupazioni.
Mi auguro che presto si reintroduca nell’uso del parlare corrente il riferimento all’elemento spirituale umano. Perché se si considera l’unicità della persona, con la sua storia e il suo patrimonio esclusivo e irripetibile di “esperienze” e valori individuali, diventa necessario riferirsi a un elemento spirituale individuale per ciascun essere umano.
Il dovere di ciascuno di noi è quello di lottare per conservare la nostra umanità, per dare un senso alla nostra vita e al nostro destino, a prescindere da razza, censo o religione. Quando viene a mancare questa nostra presenza attiva di vigilanza ed operosità tessente, la violenza (e naturalmente la guerra) si appropria di ogni parte della vita, la restringe, la rende più povera. Impedisce di lavorare, di avere una famiglia, di giocare, di amare. L’essere umano perde la sua specifica dignità e precipita in uno stato vegetativo con l’unica preoccupazione di procurarsi il cibo e mettersi al riparo, come fanno gli animali… Ciò non è umano.
Che la situazione sia veramente critica, questo lo può vedere chiunque abbia voglia e coraggio di guardare in faccia la realtà.
Se consideriamo i dati forniti dal Centro Europeo Ambiente e Salute dell’OMS, emerge una situazione mondiale che non può lasciare indifferenti.
– Nel 2000 sono stati uccisi nel mondo circa 199.000 giovani, pari a una media di 565 esseri umani tra i 10 e 29 anni che sono morti ogni giorno in seguito ad episodi di violenza interpersonale. Non trascurando il fatto che per ogni giovane ucciso, è rimasto ferito un numero compreso tra i 20 e i 40 .
– È stato stimato per quello stesso anno un numero di bambini pari a circa 57.000 vittime d’omicidio. I tassi maggiori d’infanticidio si sono registrati per i bambini tra 0 e 4 anni; che rappresentano un numero doppio rispetto a quelli di età compresa tra i 5 e i 14 anni.
– Una percentuale variabile tra il 40% e il 70% degli omicidi verso le donne, sono stati provocati dai partner. Spesso come atti conclusivi di un abuso perpetrato.
Un numero compreso tra il 10 e il 69% delle donne ha riferito di essere stato aggredito dal partner almeno una volta nella vita.
– Un dato complessivo riferito alla violenza sessuale registra che circa il 25% delle donne ha rischiato una violenza sessuale del partner.
Mentre un terzo delle adolescenti ha riferito di aver avuto la prima esperienza sessuale in maniera violenta.
– Gli studi allora disponibili sulla popolazione di anziani riportano che una percentuale compresa tra il 4 e il 6% di essi è stata vittima di qualche forma di abuso. Le cifre potrebbero essere più consistenti tenendo conto che spesso la morte degli anziani è stata attribuita a cause naturali, accidentali o indeterminate; mentre, effettivamente, potevano essere il risultato della violenza.
– Nel 2000 si è stimato che circa 815.000 suicidi nel mondo. Ciò significa che ogni 40 secondi una persona si è tolta la vita. Tenendo in considerazione l’età compresa tra 15 e 44 anni, è possibile stimare che il suicidio è la quarta causa di morte e la sesta causa d’invalidità e malattia.
– La violenza collettiva come la guerra, il terrorismo, il genocidio, la repressione armata, la tortura e il crimine organizzato, hanno prodotto complessivamente nel 2000 oltre 300.000 morti.
Si ritiene che le carestie insorte come conseguenza delle guerre abbiano ucciso 40 milioni di persone.

La drammaticità di questi dati, rischia di oscurare quella d’altri fatti meno eclatanti e più banali, ma allo stesso tempo ancora più inquietanti perché spesso sfuggono alla nostra attenzione. Penso allora alla capacità dei mass media di negare o alterare i fatti e di conseguenza al loro vasto potere di coartazione culturale.
Mi vengono in mente le guerre di condominio, che metaforicamente richiamano anche gli spazi di altri interessi comuni: prima liti e ripicche, poi offese e minacce; in un crescendo che spesso rischia di arrivare alla follia. Tutto ciò a causa di banali problemi di convivenza che potrebbero essere risolti con un comportamento più civile e rispettoso.
Non posso trascurare le migliaia di morti sulle strade. Nemmeno l’inutile esaltazione della competitività e della velocità, delle volgarità e degli sprechi che ci propongono le immagini pubblicitarie. Non posso rimanere insensibile di fronte alla dissennatezza con la quale si utilizzano le risorse della natura; e non parlo solo dell’acqua o dell’energia elettrica o dei boschi che restano inceneriti ogni anno (a proposito, mi sembra che per il momento abbiano fermato solo degli incendiari e non delle incendiarie).
Penso anche al cattivo uso delle risorse tipicamente umane, dei talenti, dell’enorme patrimonio d’intelligenza e creatività che si spreca o si rovina per mancate cure e soprattutto per mancanza di fiducia e d’incoraggiamento. Spesso si riflette, non solo nell’ambito della nostra religione, sul fatto che la fede stia diminuendo. Ma com’è possibile alimentare la fede in assenza di fiducia per l’umanità e quindi nella mancanza di rispetto verso l’elemento spirituale umano?
Ormai nella cultura influenzata dall’economia neoliberista, il concetto di “guerra” ha avuto un’estensione tale mai avuta in passato; la guerra è diventata praticamente una realtà civile normale e benefica “al servizio” o “a difesa” delle popolazioni, dei mercati, delle religioni, della cultura, ecc.
La competizione, il cinismo, la concorrenza “senza tregua”, il risultato ottenuto a svantaggio del concorrente, “facendo le scarpe” all’antagonista, mettendo quest’ultimo in condizioni di non nuocere, sta provocando effettivamente gli stessi effetti della guerra classica. Eccita i più bassi istinti degli uomini in posizione di potere, incitandoli alla megalomania, agli abusi e al tornaconto personale. Colpisce e marchia in modo pesante le persone più esposte e più deboli. Il risultato: diventa sempre più difficile vivere in un clima di positiva collaborazione.
Tutti sedotti dalla volontà di potenza, dimentichi che il “potere” ha un valore diverso, inconsapevoli che esso è già in noi come talento, come germe di salute costruttiva.
Pure il mondo dello sport, un tempo – ormai remoto – simulacro della salute individuale e sociale, del piacere dello stare insieme, manifesta il suo lato belluino. Lo scorso anno, il numero dei feriti negli stadi è aumentato del 260 per cento nelle prime tredici giornate del campionato di calcio di serie A (fonte Osservatorio nazionale di polizia). In concreto, il numero dei tifosi feriti è aumentato da 42 a 150, quello degli agenti feriti da 97 a 357. Inoltre, il numero di partite in cui si sono verificati incidenti è aumentato del 25%.
La guerra ormai la viviamo – chi più, chi meno – dentro di noi, nelle relazioni che abbiamo con gli altri e con noi stessi. Spesso nascondendo la sofferenza dietro lo stereotipo della parola “stress” rischiamo di non accorgerci dell’insostenibilità della nostra vita. Viviamo dentro una volgarità diffusa che sta stravolgendo la natura umana. Abbiamo da tempo superato il limite e non ce ne siamo accorti perché non abbiamo più un concetto definito di limite. Viviamo nell’ebbrezza del “no limits”.

Quale posto occupa nella mia vita il concetto “tessere la pace”? martedì, Gen 8 2008 

Nella mia storia, come immagino accada per ogni essere umano, l’armonia, l’intesa, l’accordo, la conciliazione; ma anche la quiete, la tranquillità, lo stare bene con gli altri e con me stesso, il sentirmi rispettato per quello che sono e non per quello che gli altri vorrebbero che io fossi; questi “stati” rappresentano la mia vita e la mia crescita positiva.
Essi, tutti sinonimi di pace e di rispetto, agevolano e incoraggiano la mia crescita personale e professionale; mi dispongono in modo positivo e accettante nei confronti del mondo. In caso contrario avverto in me immediatamente delle sensazioni di malessere che mi portano a difendere il mio mondo interiore e quanto significa “essere me stesso” e la mia dignità di sentirmi un uomo libero e rispettoso degli altri.
Naturalmente, a volte, capita anche a me di trovarmi dalla parte di chi ha più ragione e allora verifico com’è facile cadere nel rischio di manipolare o offendere l’altro. Mi rendo anche conto di come sia difficile essere sempre vigili e padroneggiare il proprio carattere, ma è necessario. Soprattutto perché crea benessere.

Che il 2008 possa essere un anno generoso, in cui ciascuno di noi tenti di coltivare al meglio saggezza, onestà e responsabilità. lunedì, Gen 7 2008 

Vorrei tessere la pace giorno per giorno …
Ma prima di tutto cerco di avere qualche sprazzo di consapevolezza sui limiti e le opportunità che mi si pongono di fronte nel momento in cui cerco di affrontare un tema affascinante e allo stesso tempo azzardoso come quello del “Tessere la pace”. Mi rendo conto che l’avventatezza di giudicare i comportamenti degli altri, moraleggiare, dare suggerimenti, fare prediche, emergerebbe sicuramente se mostrassi il fianco alla seduzione dell’argomento.
Mi sembra troppo facile cadere nel tranello di parlare della pace, manifestare per la pace, senza percepire lucidamente il reale bisogno di pace che c’è in me oppure trascurando il suo lato in ombra; quello che definisco come il “rovescio della medaglia”. Insomma mi chiedo fino a che punto riuscirò ad essere autentico nelle mie affermazioni.
Ho partecipato e parteciperò ancora alle fiaccolate per la pace, ho esposto sui due balconi di casa le bandiere iridate, partecipo convinto e coinvolto, sento che è necessario esigere una pari dignità per ogni bambina o bambino, per ogni adulto, per ogni vecchio, ma poi … A volte mi accorgo d’essere molto democratico in pubblico e meno nelle relazioni più strette, che di solito sono anche le più importanti. Altre volte mi percepisco vittima dei comportamenti di altre persone che magari esercitano “democraticamente” la loro libertà, ma allo stesso tempo limitano o non riconoscono la mia.
Ecco perché penso sia necessario che io cerchi di riflettere con attenzione su alcuni fatti o dati di realtà; soprattutto per evitare il più possibile la palude dell’eccesso di sentimento o di ideali e sfuggendo anche il lato drammatico di un eventuale sentimento d’impotenza.
Sapendo come, di fronte ai tanti episodi che accadono, con la loro lacerante drammaticità e terribilità, sia facile volare in ampie e infruttuose astrazioni, soprattutto per evitare inconsciamente di sentirsi incapaci e soli.
Scelgo allora di “fratturare” quello che sono diventato nel corso della mia vita, per guardarci dentro e riflettere sulla mia esperienza di uomo. Con l’intenzione di rivelarmi innanzitutto come persona, a vantaggio della tessitura che vorrei portare avanti insieme ad altri.
Perché sono convinto che ognuno, in quanto portatrice o portatore di un proprio vissuto individuale, possa essere un’esperta o un esperto, capace di costruire una vitale e feconda comunità di esperienze; in grado di tessere solide “tele” per sostenere e agevolare la crescita individuale delle persone e il futuro dell’umanità.
Volendo condividere soprattutto la mia esperienza di persona, accomunarla con quella di altri diversi da me, cercando di darmi dei punti di riferimento, mi sono chiesto:
– Quale posto occupa nella mia vita il concetto “tessere la pace”?
– In genere esso quale posto dovrebbe occupare nella vita di tutti noi?
– Quale posto occupa nella mia vita l’atto del “tessere la pace”?
– A quale specifico “tessere” decido di dar corso e a quali devo rinunciare per mia attuale indisponibilità e/o impreparazione.

colto nella rete (libreria delle donne) lunedì, Mar 5 2007 

Una lettera da Catania di Toti Domina

Disagio, ingiustizie, macismo, competizione, arroganza, corruzione, enormi ipocrisie, mafia, connivenze, beceri compromessi, …. sono una miscela esplosiva.
Catania è anche questa, e non possiamo nasconderlo.
La tragedia era nell’aria, solo che questa volta si è intrecciata con il calcio e ha coinvolto un onesto poliziotto e i suoi affetti più cari (due elementi che hanno portato tutto alla ribalta internazionale).
Esistono però tante, sicuramente meno eclatanti, tragedie a Catania, che non fanno notizia.
Inutile sottolineare che il calcio è un pretesto per scaricare questa rabbia e questa follia collettiva in modo scientifico e organizzato.
Il “vero catanese” è maschio, forte, non si fa mettere i piedi in faccia (piuttosto li mette), per lui le femmine o sono sante o sono puttane o comunque da sottomettere o da insultare (anche allo stadio). Dove scaricare questa virilità, questa violenza? Contro chi? Allo stadio dicono tutti.
[Magari fosse solo allo stadio – n.d.r.] In casa dico io, dentro la vita domestica anche di famiglie apparentemente tranquille e per bene. A scuola contro chi non si adegua o è diverso. Nel lavoro se qualcuno per caso decide di pensare con la propria testa. Nel quartiere se ti rifiuti di far parte del branco e non riconosci chi è il capo.
A me piace tantissimo andare allo stadio, lo trovo uno spettacolo immenso, e lo considero un mio diritto e me lo voglio riprendere, a Catania, insieme al diritto di poter pensare con la mia testa, di poter gridare contro i potenti e i prepotenti, insieme al diritto di vivere il mio essere maschio senza per questo essere violento e violentatore, ma occupandomi dei miei figli, della casa, andando allo stadio senza insultare le madri o le mogli di nessuno, pieno di dubbi, pauroso e fragile.
scusate il disturbo
Toti

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