KOSOVO E IDENTITÀ INTOLLERANTE martedì, Feb 19 2008 

Le nazioni violente di Claudio Magris (editoriale, pubblicato sul Corriere della Sera, 11 febbraio 2008)

Un grande e illuminato padre dell’idea di nazione, Giuseppe Mazzini, la concepiva come un’identità fraternamente solidale con le altre; la sua Giovine Italia non è pensabile senza la Giovine Europa in cui doveva armoniosamente inserirsi. Ogni nazione appariva, in questo disegno, non solo rispettosa, ma pure bisognosa delle altre, come lo è ogni voce in un coro, inconfondibile ma intonata in accordo con tutte le altre. Un altro geniale fondatore dell’idea di nazione, Herder, amico di gioventù di Goethe, vedeva l’umanità come un grande albero, di cui le diverse nazioni erano elementi costitutivi, distinti ma organicamente connessi, come le foglie le radici la corteccia.

Un’unità organicamente articolata, della quale la letteratura era l’espressione fondante e in cui la canzone popolare lettone si affiancava all’Iliade come una viola a una quercia. La nazionalità non è un atavico e deterministico retaggio di sangue; è un dato culturale, un sentimento spontaneo di appartenenza; è ciò che uno sente di essere. L’identità non è un dato arcaico e immutabile, ma è sempre in divenire, afferma Roberto Toscano; appartiene al fare prima che all’essere, ha scritto Predrag Matvejevic. Se volessimo determinare l’identità nazionale in base a criteri razziali e al Dna — in questo caso meno affidabile di un inno patriottico—ci perderemmo in una giungla di atomi etnici, in quel buio dell’origine che Nietzsche ci ha insegnato a considerare non già miticamente fascinoso, bensì insignificante. «Ho passato la vita a scartare identità diverse», ha detto a Guido Santevecchi Monica Ali, scrittrice bengalese di lingua inglese che vive a Londra, criticando l’irrigidimento sia degli immigrati sia dei britannici.

Nella visione di Herder o di Mazzini, le nazioni dovevano essere concordi. Nella realtà le cose sono andate in modo opposto; la storia dell’idea di nazione — mirabilmente tracciata da Federico Chabod — e l’affermazione del principio di nazionalità sono una serie di conflitti, oppressioni, rivendicazioni, deliri di superiorità culturale o razziale, lividi e vendicativi complessi di inferiorità, odi viscerali e fautori di violenze, sino alla strage e al genocidio. La nazione è divenuta nazionalismo ossia snazionalizzazione di altre; il patriottismo ha negato se stesso capovolgendosi in sciovinismo e portando talvolta a rovina la patria, come è avvenuto in Italia col fascismo. La particolarità — ha scritto Matvejevic — non è ancora un valore, è una realtà sulla quale si può costruire un valore. Quando la particolarità — o, per usare un termine caro alla retorica odierna, la diversità—viene vissuta quale un valore in sé, essa è già latente violenza.

La violenza si scatena soprattutto quando si confondono due principi e due realtà distinte, la nazione e lo Stato. Talora essi possono di fatto quasi coincidere, come nel caso della Francia; talora sono nettamente distinti, come nel caso della Svizzera. Ma da nessuna parte sta scritto che cittadinanza e nazionalità debbano coincidere. Alcuni dei più grandi Stati della storia — non solo materialmente, anche culturalmente e politicamente—sono plurinazionali, dall’impero romano a quello absburgico e, oggi, agli Stati Uniti, mosaico di tante stirpi diverse. Anche gli Stati più compatti dal punto di vista nazionale comprendono minoranze. È impossibile — e sarebbe un’ astrazione apportatrice di impoverimento — tracciare confini che separino nettamente le nazionalità. Essenziale, per la vita civile di un Paese, è la piena tutela delle minoranze, il loro diritto formale e la loro possibilità reale di sviluppare liberamente la propria lingua, la propria cultura, la propria nazionalità.

La delirante pretesa di fare di ogni nazionalità uno Stato — barbarico richiamo della foresta che sembrava esorcizzato dai processi di aggregazione e unificazione su basi federali — dilaga sempre più, minacciando nuove sciagure. Una mina immediata è costituita dall’imminente indipendenza del Kosovo, che era stata esclusa dal nostro governo quando l’Italia aveva partecipato alla vergognosa guerra del Kosovo, intrapresa contro coloro— i serbi—che in passato avevano oppresso gli albanesi, ma che in quel momento erano semmai gli oppressi, e dunque intrapresa in soccorso dei vincitori. Nascerà così nel Kosovo un mini-stato, in cui non sarà possibile vivere a nessun serbo e di cui il leader Thaci, ex guerrigliero di quell’Uck di cui si sono viste molte fotografie marziali ma nessuna significativa azione militare, sta cercando di inventare una bandiera. Francesco Battistini ha illustrato l’effetto a catena che l’indipendenza del Kosovo può provocare: Abkhazia, Ossezia, fiamminghi e/o valloni, bretoni e via di seguito e Alberto Ronchey ha sottolineato il pericolo di nuovi, sanguinosi conflitti nell’ex Jugoslavia.

Chi ha mai detto che ogni gruppo etnico deve costituire uno Stato, quale è il confine, la misura di un gruppo nazionale che voglia divenire uno Stato? I tremila queni, i duecentomila sorbi, gli ottocentoventidue cici? Non è il numero che conta; per quanto numericamente modesta, ogni comunità nazionale, ogni minoranza deve essere pienamente tutelata. Ma non per questo è possibile che diventi uno Stato. Nei micro-stati, sorti per febbre identitaria e nazionalista, le minoranze, inevitabilmente esistenti al loro interno, sarebbero esposte a pesanti oppressioni; in un eventuale Stato basco i numerosi spagnoli viventi nel suo territorio sarebbero assai meno tutelati di quanto lo siano oggi i baschi in Spagna. Se si inizia a scindere ogni comunità nelle sue componenti — etniche, religiose, di qualsiasi genere—non si finisce più o si finisce per arrivare al singolo individuo, diverso da ogni altro. Ma, come dice un’esilarante storiella di Moni Ovadia, neppure questo basta, perché pure ogni individuo è straniero a se stesso e vorrebbe tante volte espellere una parte di sé dal suo essere.

La corsa di ogni gruppo nazionale a Stato è tanto più grottesca oggi, in un’epoca nella quale la cosiddetta globalizzazione spinge tanti individui dai più diversi continenti in altri Paesi, creando situazioni in cui la fedeltà affettiva alle proprie origini — alla propria lingua, alle proprie tradizioni— può realizzarsi soltanto nell’ integrazione nel nuovo Paese. Gli Stati Uniti o la Francia, il Paese per eccellenza della grande Nation, sono fortemente costituiti da cittadini provenienti da altre parti del mondo o da territori metropolitani di altra stirpe, che si sentono profondamente cittadini americani o francesi, consapevoli di preservare in tal modo la loro cultura molto meglio dei patetici separatismi. La nazionalità è un valore caldo: lingua, consuetudini, canzoni, paesaggi, cibi. Lo Stato è un valore freddo: leggi, regole, sicurezza e assistenza sociale. Si amano i valori caldi, ci si commuove per una canzone natia, non per un articolo di un codice. Ma è quest’ultimo che permette a ognuno di cantare, commuovendosi, le sue canzoni.

arancia meccanica domenica, Feb 17 2008 

Facendo un po’ di ordine tra i miei file ho ritrovato una scheda (“Arancia Meccanica”: il potere del libero arbitrio) redatta da Ivana Faranda (http://www.ecodelcinema.com/arancia-meccanica-il-potere-del-libero-arbitrio.htm).

“Arancia meccanica” di Stanley Kubrick non ha perso ancora il suo fascino. Solo a prima vista il tema è quello della violenza, in realtà si parla di libero arbitrio, di manipolazione delle menti e di un mondo dove non c’è salvezza per nessuno. La vita del capodrugo Alex De Large è sesso, ultraviolenza e musica classica, il tutto annaffiato dal latte più del Korova milk bar. Tradito dai suoi complici e condannato per omicidio accetterà di farsi rieducare con il “Metodo Ludovico” che in qualche modo ricorda il progetto Mkultra attuato dalla CIA tra gli anni 60/70. Diventato cittadino esemplare a sue spese, Alex scoprirà che per sopravvivere il suo occhio deve tornare a scintillare come prima e con il beneplacito del potere. Un film che sin dal suo nascere ha avuto problemi con la censura, essendo passato agli occhi di tutti come opera che incita alla violenza come è capitato in tempi più recenti a “Natural Born Killer” di Oliver Stone. Trasmesso sabato 2 gennaio su Studio Universal di Sky, è stato considerato un tabù televisivo sino al 25 settembre 2007 data della sua prima messa in onda in chiaro su La7 dopo le ore 22.30. L’occhio azzurro di Malcolm Mc Dowell sinistramente enfatizzato dalle ciglia posticce ci introduce in un mondo dove non c’è salvezza per nessuno. Alex, eroe senza legge, paradossalmente è l’unico che resta puro anche nell’esercizio della violenza e incarna l’essenza stessa dell’Homo omini lupus. Del resto “Arancia Meccanica” è una libera traduzione di “as queer as a clockwork orange” espressione londinese che suona come “strano come un’arancia meccanica” dove queer sta per fuori dal comune. Tutti i personaggi ruotano intorno al protagonista, a partire dai suoi “amici” che non possedendone il carisma lo vendono al potere per diventarne loro stessi parte. La Londra in cui si svolge la scena è un labirinto squallido e sporco come l’androne di casa di Alex. Gli ambienti in cui si muovono i personaggi sono futuribili quasi sulla scia di Odissea 2001. Colore dominante il bianco come le divise dei drughi, il Korova Milk Bar, simbolo di purezza e di freddo minimalismo al tempo stesso. Su di esso risalta il rosso come il sangue e come l’abito della signora violentata nella casa di campagna, mentre nere sono le divise dei miliziani-poliziotti. Le scene di violenza, seppur dure non appaiono fini a se stesse e portano l’indiscutibile marchio british dell’humour noir come vedremo fare molti anni dopo in “Trainspotting” senza il genio estetico di Kubrick. Indimenticabile lo stupro a tempo di “Singing’ in the rain”, come il balletto di violenza nel vecchio teatro con “ La gazza ladra”. La lingua usata è il “nadsat”, un mix d’inglese e russo inventato dall’autore dell’omonimo libro Anthony Burgess. Di Stanley Kubrick era noto il suo perfezionismo e qui il grande maestro non si smentisce dalle scenografie ai costumi. Non si possono non ricordare i tavolini ispirati alle sculture dell’artista inglese Allen Jones “Chairs and tables” a forma di donna e i grotteschi abiti della madre di Alex. Nella casa assolutamente kitch dei genitori la stanza del nostro eroe chiusa come una cassaforte appare quasi un’isola di buon gusto dove domina un quadro che rappresenta il grande Beethoven. Le due parti del film potrebbero sottotitolarsi “delitto e castigo”, in una struttura circolare Alex diventa da carnefice vittima in una chiave quasi “karmica”. Il secondino che lo accoglie in prigione è quasi una parodia di Hitler e anche il ministro che lo inserisce nel “programma Ludovico” appare l’incarnazione del potere nella sua forma più viscida e inquietante. Chiuso in una camicia di forza e con un fissa palpebre come strumento di tortura, all’ex capodrugo viene fatto credere che il “cinebrivido” sia la cura. In realtà in quel momento lui è il cane di Pavlov. Le immagini viste durante la cura dall’occhio di Alex sono le stesse che guardiamo noi spettatori durante il film senza riuscire a distogliere lo sguardo da quello schermo che pure ci inquieta la coscienza. Guarito, Alex rientra nella società non più delinquente temibile ma buon cittadino che si sente soffocare se assiste a scene di violenza e aimè se ascolta la Nona di Beethoven. In un orribile teatrino sarà la marionetta del ministro degli interni e solo il vecchio prete avrà un tocco di umanità ricordando che senza libera arbitrio non c’è vita, che il bene deve essere una scelta. Fuori nel mondo sarà la “vittima dell’era moderna” e desidererà di “renderla”, di morire senza dolore e in pace. L’amata nona diventata per lui supplizio mortale, nonostante tutto gli aprirà la via di fuga. “Arancia meccanica” si chiude come si è aperto con l’occhio azzurro di Alex che ritorna finalmente alla vita puro come prima, così diverso dalla sinistra maschera del ministro che gli propone “Una nuova intesa tra vecchi amici”.

mercoledì, Feb 13 2008 

Potremmo essere più umani nei nostri rapporti professionali? Il lavoro sta perdendo sempre di più le sue dimensioni umane. In che misura il lavoro sta improntando la vita delle persone? Quanto “pesa” l’educazione ricevuta? Quanto sta influendo l’imitazione inconscia di modelli di comportamento “vincenti”?
Per dirla in modo molto rozzo, abbiamo un’educazione che da una parte ci porta verso la dipendenza, dall’altra ci spinge a vivere, ad andare verso l’emancipazione … in un modo patologico. E’ un’emancipazione che cerca di realizzarsi attraverso la competitività, la competizione malsana, l’arrivare primi ai danni degli altri. Questo non fa altro che aumentare la drammaticità dei rapporti e quindi alimentare il conflitto, la “guerra” tra bande e tra singole persone.