KOSOVO E IDENTITÀ INTOLLERANTE martedì, Feb 19 2008 

Le nazioni violente di Claudio Magris (editoriale, pubblicato sul Corriere della Sera, 11 febbraio 2008)

Un grande e illuminato padre dell’idea di nazione, Giuseppe Mazzini, la concepiva come un’identità fraternamente solidale con le altre; la sua Giovine Italia non è pensabile senza la Giovine Europa in cui doveva armoniosamente inserirsi. Ogni nazione appariva, in questo disegno, non solo rispettosa, ma pure bisognosa delle altre, come lo è ogni voce in un coro, inconfondibile ma intonata in accordo con tutte le altre. Un altro geniale fondatore dell’idea di nazione, Herder, amico di gioventù di Goethe, vedeva l’umanità come un grande albero, di cui le diverse nazioni erano elementi costitutivi, distinti ma organicamente connessi, come le foglie le radici la corteccia.

Un’unità organicamente articolata, della quale la letteratura era l’espressione fondante e in cui la canzone popolare lettone si affiancava all’Iliade come una viola a una quercia. La nazionalità non è un atavico e deterministico retaggio di sangue; è un dato culturale, un sentimento spontaneo di appartenenza; è ciò che uno sente di essere. L’identità non è un dato arcaico e immutabile, ma è sempre in divenire, afferma Roberto Toscano; appartiene al fare prima che all’essere, ha scritto Predrag Matvejevic. Se volessimo determinare l’identità nazionale in base a criteri razziali e al Dna — in questo caso meno affidabile di un inno patriottico—ci perderemmo in una giungla di atomi etnici, in quel buio dell’origine che Nietzsche ci ha insegnato a considerare non già miticamente fascinoso, bensì insignificante. «Ho passato la vita a scartare identità diverse», ha detto a Guido Santevecchi Monica Ali, scrittrice bengalese di lingua inglese che vive a Londra, criticando l’irrigidimento sia degli immigrati sia dei britannici.

Nella visione di Herder o di Mazzini, le nazioni dovevano essere concordi. Nella realtà le cose sono andate in modo opposto; la storia dell’idea di nazione — mirabilmente tracciata da Federico Chabod — e l’affermazione del principio di nazionalità sono una serie di conflitti, oppressioni, rivendicazioni, deliri di superiorità culturale o razziale, lividi e vendicativi complessi di inferiorità, odi viscerali e fautori di violenze, sino alla strage e al genocidio. La nazione è divenuta nazionalismo ossia snazionalizzazione di altre; il patriottismo ha negato se stesso capovolgendosi in sciovinismo e portando talvolta a rovina la patria, come è avvenuto in Italia col fascismo. La particolarità — ha scritto Matvejevic — non è ancora un valore, è una realtà sulla quale si può costruire un valore. Quando la particolarità — o, per usare un termine caro alla retorica odierna, la diversità—viene vissuta quale un valore in sé, essa è già latente violenza.

La violenza si scatena soprattutto quando si confondono due principi e due realtà distinte, la nazione e lo Stato. Talora essi possono di fatto quasi coincidere, come nel caso della Francia; talora sono nettamente distinti, come nel caso della Svizzera. Ma da nessuna parte sta scritto che cittadinanza e nazionalità debbano coincidere. Alcuni dei più grandi Stati della storia — non solo materialmente, anche culturalmente e politicamente—sono plurinazionali, dall’impero romano a quello absburgico e, oggi, agli Stati Uniti, mosaico di tante stirpi diverse. Anche gli Stati più compatti dal punto di vista nazionale comprendono minoranze. È impossibile — e sarebbe un’ astrazione apportatrice di impoverimento — tracciare confini che separino nettamente le nazionalità. Essenziale, per la vita civile di un Paese, è la piena tutela delle minoranze, il loro diritto formale e la loro possibilità reale di sviluppare liberamente la propria lingua, la propria cultura, la propria nazionalità.

La delirante pretesa di fare di ogni nazionalità uno Stato — barbarico richiamo della foresta che sembrava esorcizzato dai processi di aggregazione e unificazione su basi federali — dilaga sempre più, minacciando nuove sciagure. Una mina immediata è costituita dall’imminente indipendenza del Kosovo, che era stata esclusa dal nostro governo quando l’Italia aveva partecipato alla vergognosa guerra del Kosovo, intrapresa contro coloro— i serbi—che in passato avevano oppresso gli albanesi, ma che in quel momento erano semmai gli oppressi, e dunque intrapresa in soccorso dei vincitori. Nascerà così nel Kosovo un mini-stato, in cui non sarà possibile vivere a nessun serbo e di cui il leader Thaci, ex guerrigliero di quell’Uck di cui si sono viste molte fotografie marziali ma nessuna significativa azione militare, sta cercando di inventare una bandiera. Francesco Battistini ha illustrato l’effetto a catena che l’indipendenza del Kosovo può provocare: Abkhazia, Ossezia, fiamminghi e/o valloni, bretoni e via di seguito e Alberto Ronchey ha sottolineato il pericolo di nuovi, sanguinosi conflitti nell’ex Jugoslavia.

Chi ha mai detto che ogni gruppo etnico deve costituire uno Stato, quale è il confine, la misura di un gruppo nazionale che voglia divenire uno Stato? I tremila queni, i duecentomila sorbi, gli ottocentoventidue cici? Non è il numero che conta; per quanto numericamente modesta, ogni comunità nazionale, ogni minoranza deve essere pienamente tutelata. Ma non per questo è possibile che diventi uno Stato. Nei micro-stati, sorti per febbre identitaria e nazionalista, le minoranze, inevitabilmente esistenti al loro interno, sarebbero esposte a pesanti oppressioni; in un eventuale Stato basco i numerosi spagnoli viventi nel suo territorio sarebbero assai meno tutelati di quanto lo siano oggi i baschi in Spagna. Se si inizia a scindere ogni comunità nelle sue componenti — etniche, religiose, di qualsiasi genere—non si finisce più o si finisce per arrivare al singolo individuo, diverso da ogni altro. Ma, come dice un’esilarante storiella di Moni Ovadia, neppure questo basta, perché pure ogni individuo è straniero a se stesso e vorrebbe tante volte espellere una parte di sé dal suo essere.

La corsa di ogni gruppo nazionale a Stato è tanto più grottesca oggi, in un’epoca nella quale la cosiddetta globalizzazione spinge tanti individui dai più diversi continenti in altri Paesi, creando situazioni in cui la fedeltà affettiva alle proprie origini — alla propria lingua, alle proprie tradizioni— può realizzarsi soltanto nell’ integrazione nel nuovo Paese. Gli Stati Uniti o la Francia, il Paese per eccellenza della grande Nation, sono fortemente costituiti da cittadini provenienti da altre parti del mondo o da territori metropolitani di altra stirpe, che si sentono profondamente cittadini americani o francesi, consapevoli di preservare in tal modo la loro cultura molto meglio dei patetici separatismi. La nazionalità è un valore caldo: lingua, consuetudini, canzoni, paesaggi, cibi. Lo Stato è un valore freddo: leggi, regole, sicurezza e assistenza sociale. Si amano i valori caldi, ci si commuove per una canzone natia, non per un articolo di un codice. Ma è quest’ultimo che permette a ognuno di cantare, commuovendosi, le sue canzoni.

arancia meccanica domenica, Feb 17 2008 

Facendo un po’ di ordine tra i miei file ho ritrovato una scheda (“Arancia Meccanica”: il potere del libero arbitrio) redatta da Ivana Faranda (http://www.ecodelcinema.com/arancia-meccanica-il-potere-del-libero-arbitrio.htm).

“Arancia meccanica” di Stanley Kubrick non ha perso ancora il suo fascino. Solo a prima vista il tema è quello della violenza, in realtà si parla di libero arbitrio, di manipolazione delle menti e di un mondo dove non c’è salvezza per nessuno. La vita del capodrugo Alex De Large è sesso, ultraviolenza e musica classica, il tutto annaffiato dal latte più del Korova milk bar. Tradito dai suoi complici e condannato per omicidio accetterà di farsi rieducare con il “Metodo Ludovico” che in qualche modo ricorda il progetto Mkultra attuato dalla CIA tra gli anni 60/70. Diventato cittadino esemplare a sue spese, Alex scoprirà che per sopravvivere il suo occhio deve tornare a scintillare come prima e con il beneplacito del potere. Un film che sin dal suo nascere ha avuto problemi con la censura, essendo passato agli occhi di tutti come opera che incita alla violenza come è capitato in tempi più recenti a “Natural Born Killer” di Oliver Stone. Trasmesso sabato 2 gennaio su Studio Universal di Sky, è stato considerato un tabù televisivo sino al 25 settembre 2007 data della sua prima messa in onda in chiaro su La7 dopo le ore 22.30. L’occhio azzurro di Malcolm Mc Dowell sinistramente enfatizzato dalle ciglia posticce ci introduce in un mondo dove non c’è salvezza per nessuno. Alex, eroe senza legge, paradossalmente è l’unico che resta puro anche nell’esercizio della violenza e incarna l’essenza stessa dell’Homo omini lupus. Del resto “Arancia Meccanica” è una libera traduzione di “as queer as a clockwork orange” espressione londinese che suona come “strano come un’arancia meccanica” dove queer sta per fuori dal comune. Tutti i personaggi ruotano intorno al protagonista, a partire dai suoi “amici” che non possedendone il carisma lo vendono al potere per diventarne loro stessi parte. La Londra in cui si svolge la scena è un labirinto squallido e sporco come l’androne di casa di Alex. Gli ambienti in cui si muovono i personaggi sono futuribili quasi sulla scia di Odissea 2001. Colore dominante il bianco come le divise dei drughi, il Korova Milk Bar, simbolo di purezza e di freddo minimalismo al tempo stesso. Su di esso risalta il rosso come il sangue e come l’abito della signora violentata nella casa di campagna, mentre nere sono le divise dei miliziani-poliziotti. Le scene di violenza, seppur dure non appaiono fini a se stesse e portano l’indiscutibile marchio british dell’humour noir come vedremo fare molti anni dopo in “Trainspotting” senza il genio estetico di Kubrick. Indimenticabile lo stupro a tempo di “Singing’ in the rain”, come il balletto di violenza nel vecchio teatro con “ La gazza ladra”. La lingua usata è il “nadsat”, un mix d’inglese e russo inventato dall’autore dell’omonimo libro Anthony Burgess. Di Stanley Kubrick era noto il suo perfezionismo e qui il grande maestro non si smentisce dalle scenografie ai costumi. Non si possono non ricordare i tavolini ispirati alle sculture dell’artista inglese Allen Jones “Chairs and tables” a forma di donna e i grotteschi abiti della madre di Alex. Nella casa assolutamente kitch dei genitori la stanza del nostro eroe chiusa come una cassaforte appare quasi un’isola di buon gusto dove domina un quadro che rappresenta il grande Beethoven. Le due parti del film potrebbero sottotitolarsi “delitto e castigo”, in una struttura circolare Alex diventa da carnefice vittima in una chiave quasi “karmica”. Il secondino che lo accoglie in prigione è quasi una parodia di Hitler e anche il ministro che lo inserisce nel “programma Ludovico” appare l’incarnazione del potere nella sua forma più viscida e inquietante. Chiuso in una camicia di forza e con un fissa palpebre come strumento di tortura, all’ex capodrugo viene fatto credere che il “cinebrivido” sia la cura. In realtà in quel momento lui è il cane di Pavlov. Le immagini viste durante la cura dall’occhio di Alex sono le stesse che guardiamo noi spettatori durante il film senza riuscire a distogliere lo sguardo da quello schermo che pure ci inquieta la coscienza. Guarito, Alex rientra nella società non più delinquente temibile ma buon cittadino che si sente soffocare se assiste a scene di violenza e aimè se ascolta la Nona di Beethoven. In un orribile teatrino sarà la marionetta del ministro degli interni e solo il vecchio prete avrà un tocco di umanità ricordando che senza libera arbitrio non c’è vita, che il bene deve essere una scelta. Fuori nel mondo sarà la “vittima dell’era moderna” e desidererà di “renderla”, di morire senza dolore e in pace. L’amata nona diventata per lui supplizio mortale, nonostante tutto gli aprirà la via di fuga. “Arancia meccanica” si chiude come si è aperto con l’occhio azzurro di Alex che ritorna finalmente alla vita puro come prima, così diverso dalla sinistra maschera del ministro che gli propone “Una nuova intesa tra vecchi amici”.

mercoledì, Feb 13 2008 

Potremmo essere più umani nei nostri rapporti professionali? Il lavoro sta perdendo sempre di più le sue dimensioni umane. In che misura il lavoro sta improntando la vita delle persone? Quanto “pesa” l’educazione ricevuta? Quanto sta influendo l’imitazione inconscia di modelli di comportamento “vincenti”?
Per dirla in modo molto rozzo, abbiamo un’educazione che da una parte ci porta verso la dipendenza, dall’altra ci spinge a vivere, ad andare verso l’emancipazione … in un modo patologico. E’ un’emancipazione che cerca di realizzarsi attraverso la competitività, la competizione malsana, l’arrivare primi ai danni degli altri. Questo non fa altro che aumentare la drammaticità dei rapporti e quindi alimentare il conflitto, la “guerra” tra bande e tra singole persone.

effetti collaterali della “guerra” liberista venerdì, Gen 25 2008 

Gli effetti collaterali di quella che è stata definita una “guerra” liberista, che influiscono sulla realtà sociale e civile si sono trasformati in perdite e profitti, in nome di una ragion di stato aziendale o nella ragione di gruppo di imprese in ristrutturazione.
E, che in realtà la “guerra” liberista provochi gli stessi effetti della guerra classica, è stato posto in evidenza da Patrick Bouvard attraverso alcuni esempi:
eccita i più bassi istinti dell’umanità, incitando le persone alla megalomania, agli abusi e al tornaconto personale senza alcun pudore; provoca nella opinione degli stessi che la credono giusta (la guerra), e che la sostengono con il loro consenso, un certo numero di dubbi, di paure, nonché una impressione sempre più definita di imbroglio e di inutilità; infine, colpisce e marchia in modo indelebile le persone e le popolazioni più esposte e più deboli.
Si potrebbero aggiungere ancora ulteriori spunti di riflessione, ma queste annotazioni schematiche saranno sufficienti per aiutare ciascuno di noi a fare considerazioni e collegamenti ulteriori, a partire dalla propria esperienza.
Fermandoci un po’ a pensare, avremo la possibilità di scoprire quanto sia grande la illusione che negare l’altro voglia dire affermare se stessi. Quanto rappresenti soltanto il contrario della realtà il fatto che l’affermazione di sé debba implicare la negazione dell’altro (mors tua vita mea). La negazione dell’altro si basa su una profonda negazione di sé, sull’odio che (inconsciamente) si ha per sé; mentre la vera affermazione di sé comprende sempre anche l’affermazione dell’altro. Di conseguenza l’aggressività che nel primo caso si trasforma inevitabilmente in distruttività, nell’altro diventa fiducia, pro-positività, amore e saggezza. La saggezza rappresenta l’affermazione della vita, un sì senza riserve all’affermarsi delle forme e delle diversità dell’esistenza ed è saggio quindi chi afferma sé stesso ma non rinuncia a riconoscere l’affermarsi dell’altro.
In questo modo la violenza non riuscirà a dominare la persona, nel momento in cui essa potrà esprimersi esercitando le sue capacità individuali. È paradossale! Perché spesso si crede che l’essere non aggressivi voglia dire offrire maggiori chance agli altri, Ma questa è l’illusione che, di solito, innesca un conflitto.

gli uomini si credono più intelligenti … venerdì, Gen 25 2008 

una notizia colta al volo.

Gli uomini si credono molto più intelligenti di quanto non siano, e le donne molto meno. L’analisi di una trentina di studi scientifici operata da Adrian Furnham, professore di Psicologia presso lo University College di Londra, non entra nel merito del dibattito infuocato (e forse anche sterile) che cerca di determinare chi sia più intelligente tra uomini e donne, ma indaga la percezione della propria e altrui intelligenza. E a quanto pare tutti pensano che gli uomini siano più intelligenti. “C’è sicuramente nei maschi un ego più sviluppato”, racconta Furnham, “Ciò che noi chiamiamo hybris (dal greco, si può tradurre con tracotanza o superbia) maschile e umiltà femminile”. Lo studio, infatti, mostra che le donne sottovalutano il loro quoziente intellettivo di ben 5 punti mentre gli uomini lo sopravvalutano. Lo studio mostra inoltre che anche le donne sovrastimano l’intelligenza degli uomini che le circondano: nonni, padri e figli. Questa differenza di percezione secondo l’autore ha una certa ricaduta poi sulla vita quotidiana. Gli uomini hanno molta più fiducia nelle loro capacità e questo, ad esempio nel mondo del lavoro, è un fattore vincente. Sottostimarsi invece può essere dannoso e portare a ottenere a risultati inferiore quando si potrebbe puntare più in alto. Anche Henry Ford lo sosteneva: “Sia che tu creda di poter o non poter riuscire a fare qualcosa, hai ragione”. Ma in fondo era un uomo. Fonte: Raymond J. He’s not as smart as he think. Newsweek 23 Gennaio 2007

di caterina visco
Pensiero Scientifico – Ven 25 Gen – 09.06

la guerra liberista giovedì, Gen 24 2008 

Non ho intenzione muovere una critica all’economia liberale in quanto tale. Vi sono autorevoli prese di posizione in merito che condivido pienamente, penso ad esempio a Guido Rossi e al suo recente “Il mercato dell’azzardo”. Vorrei però sottolineare che nell’ambito dell’economia neo liberale il concetto di “guerra” sta avendo una estensione mai avuta prima; e ciò sembra diventare – come ha fatto notare Patrick Bouvard, un sagace consulente della francese Shared Value, in una sua nota per RHinfo – “una realtà normale e benefica al servizio della popolazione”. Perché, egli soggiunge, si può pure pensare che la concorrenza esacerbata debba essere posta (teoricamente) al servizio del cliente, che si accomuni a una competizione senza respiro; ma se i comportamenti che la sostengono portano a parlare di “guerra” non è certo per semplice deriva semantica.
Sembra che la “guerra” liberista provochi effettivamente gli stessi effetti della guerra classica, annota Patrick Bouvard; sottolineando che in questo caso non si può parlare di economia liberale ma piuttosto di liberalismo selvaggio che sconvolge le regole dello stato di diritto e tende al profitto attraverso una deregulation ad ampio spettro che sfocia inevitabilmente in uno stato di “guerra”. Ecco quindi l’emergere di condizioni altamente conflittuali che non si può o non si vuole risolvere attraverso la negoziazione; una violenza che mira soprattutto alla “distruzione” dell’avversario; una volontà di egemonia e di dominio che preclude al “nemico” libertà di movimenti ; un praticare artifici per sbarazzarsi facilmente dall’ingombro di considerazioni morali e sociali che riguardano di solito le relazioni pacifiche tra le persone.

i nostri limiti lunedì, Gen 21 2008 

Da parecchio tempo siamo in molti ad avere l’impressione che la società stia diventando più violenta e non pensiamo tanto alla criminalità organizzata o al conflitto armato, quanto all’incattivirsi delle relazioni tra le persone. Non dimenticando quei fenomeni di aggregazione, quelle associazioni di potere o lobby – segrete o palesi – che agiscono esclusivamente per gestire potere e guadagno.
Assieme a tutti i vantaggi connessi all’evoluzione dei mercati e delle tecnologie, occorre tener conto anche dei rischi che ne derivano; in questo caso, consapevole che nessuno può sentirsi autorizzato a proporre spiegazioni esaustive, voglio tentare qualche riflessione provando ad applicare a questo argomento attenzione e senso di responsabilità con la stessa diligenza con cui tutti noi cerchiamo, nei limiti delle nostre possibilità, di governare per il meglio le cose importanti del nostro lavoro.
Le teorie più diffuse sull’aggressività e la violenza affrontano il problema sotto la categoria della devianza, cogliendo spesso unicamente la dimensione psicologica della persona oppure l’innatismo tipico della specie animale; oppure fanno risalire le origini a colpe più o meno evidenti della famiglia, della scuola, ecc. Limiterò il campo di osservazione al “mercato” ( si pensi alla ondata di marketing “estremi” o “no limits”) e ai fattori non direttamente individuali che tuttavia “modellano” le relazioni e le dinamiche relazionali. Mi fermerò a considerare brevemente che il fenomeno potrebbe avere origine ed espandersi con una certa rapidità proprio a partire dal mondo del lavoro; più precisamente dai linguaggi e dagli slogan che improntano –da oltre un decennio – il mondo della produzione e del consumo, che direttamente o indirettamente influenzano la organizzazione aziendale e di conseguenza i comportamenti delle persone.
Queste considerazioni potrebbero risultare limitate, non esaustive, riduttive. Tuttavia sembrano opportune per osservare in modo non ortodosso dati di fatto che possono aiutarci a comprendere quanto sia urgente ridare importanza ai valori della persona e alla capacità individuale di autocontrollo dei propri impulsi e delle proprie azioni.

Crisi di coppia e crisi di identità sabato, Gen 19 2008 

Capita nella vita di ciascuno di trovarsi sul punto di dover prendere una iniziativa di cambiamento importante, oppure essere già nel guado della decisione presa o, ancora, in una situazione in cui – indipendentemente dal proprio volere – si viene messi in crisi, ci si trova ad affrontare una situazione più o meno caotica che sfida le nostre capacità e fa affiorare i nostri limiti. Si può dire che tutto ciò appare in modo funzionale ogni qual volta nella nostra vita accadono degli eventi nuovi intrinsecamente legati alla crescita di ogni individuo e connessi a specifiche tappe biologiche. Sembrerebbe strano ma molte persone lo avvertono anche nella situazione venutasi a creare successivamente al trasloco della loro abitazione.
Ci sono però momenti più drammatici, come una grave malattia, la perdita di una persona cara o un cambiamento repentino nel lavoro, in cui avanzano improvvise delle violente spinte al cambiamento che possono addirittura arrivare a minacciare la salute delle persone. In questo caso irrompono con molta potenza sentimenti quali la pena, la sofferenza, il dubbio, la paura, la vergogna, la colpa… Moti dell’anima che in modo pesante ci invadono, ci investono come una tempesta, fanno perdere l’orientamento come nella nebbia. Vorremmo avere un punto di riferimento, oppure un luogo in cui riposarsi, ritemprarsi, riconoscere se stessi e le proprie capacità di salvezza, di salute o di riuscita. Desidereremmo risorgere…
I casi in cui l’umanità incontra queste “occasioni” sono veramente molti e possono presentarsi in modo favorevole o sfavorevole, coinvolgere una o più persone. Momenti che vengono superati con una certa naturalezza ed altri molto più faticosi e penosi. Spesso i drammi individuali coinvolgono altre persone che in forma più o meno accentuata riflettono ulteriori difficoltà.
Karl Jaspers ha definito la crisi come un punto di passaggio dove “tutto subisce un cambiamento subitaneo dal quale l’individuo esce trasformato, sia dando origine a una nuova risoluzione, sia andando verso la decadenza. La storia della vita non segue il corso uniforme del tempo, struttura il proprio tempo qualitativamente, spinge lo sviluppo delle esperienze a quell’estremo che rende inevitabile la decisione”.*
A volte la decisione non arriva immediata, è frutto di un lungo macerarsi, di un travaglio che molto spesso rimpalla tra vergogna (come turbamento o senso di indegnità o incapacità avvertito dalla persona che teme di ricevere una disapprovazione della sua condotta) e colpa (come sentimento di aver trasgredito involontariamente a una regola) con collaterali comportamenti di negazione e/o di iperdrammatizzazione.
Tale è, a grandi linee, lo scenario della crisi-cambiamento che, nel decorso meno favorevole per un individuo, può manifestarsi come perdita “di un mondo”, nei casi in cui è ancora possibile elaborare il lutto, oppure come perdita “del mondo” in quelle occasioni in cui prevale la catastrofe che spinge alla erranza.
Se, come veniva accennato prima, la perdita del lavoro può essere vissuta come fallimento del proprio progetto di vita e crisi di identità, tanto da arrivare a colpire la salute delle persone, il fallimento del progetto di una coppia genitoriale può essere altrettanto distruttivo e spesso le persone vivono grosse difficoltà o addirittura restano a lungo tempo incapaci a “far fronte” a questa situazione.
Le separazioni, non infrequenti in seguito alle difficoltà di rapporto e alle modificazioni organizzative-ambientali vissute dalle coppie, rappresentano un ulteriore problema sia per i membri della famiglia, sia per gli stessi mediatori familiari costretti, a volte, a confrontarsi con persone che agiscono e pensano sulla base di una backgrground (identità) di cultura, norme e consuetudini, ruoli di genere ecc., spesso di difficile negoziazione in quanto non ri-conosciuti da loro stessi.

A quale specifico “tessere” (la pace) decido di dar corso e a quali devo rinunciare per mia attuale indisponibilità e/o impreparazione. domenica, Gen 13 2008 

Rimango convinto che ogni processo evolutivo inizi, soprattutto per quanto riguarda gli adulti, da un consapevole processo di crescita personale e contemporaneamente dall’accettazione di naturali processi di cambiamento. Io posso cambiare me. Incontro difficoltà e rischi d’insuccesso proporzionalmente crescenti se volessi cambiare il mondo in generale e non il “mio” mondo. Con convinzione e responsabilità. Accettando anche le realistiche e, direi normali, batoste legate ai miei probabili insuccessi.
È a partire da quest’esperienza che potrò portare il mio contributo nella società, è il mio patrimonio individuale che potrà essere accomunato con le diversità di esperienze degli Altri con i quali voglio tessere una tela più grande del mio personale tessuto biografico.
Dovrei rinunciare a fare questo, quindi prendere atto della mia attuale indisponibilità o incapacità solo se avessi paura che “un nuovo mondo è possibile”, solo se pensassi che nulla potrebbe cambiare; che lo status quo attuale possa rimanere inalterato.
Io però non ho paura del dialogo e del confronto. Credo – condividendo una affermazione di Enzo Bianchi, che “affinché io trovi più verità, ho bisogno del confronto con la verità degli altri: con la loro verità essi aiutano la mia”. Non c’è da avere paura di questo dialogo.

Donare quia absurdum giovedì, Gen 10 2008 

IL DONO E’ SENZA PERCHE’
Barbara Spinelli
La Stampa, 23-12-2007

E’ naturale che giornali e televisioni si affollino, da molti giorni, di parole e immagini sul Natale che viene e in modo speciale sul rito associato da tempo immemoriale alla divina festa: parlo di quel che vien chiamato lo scambio dei doni. Vien chiamato così ed è già una stortura: perché nessun dono, se è dono, è accostabile allo scambiare, allo stipulare contratti, a un dare condizionato. È un evento che crea società stretta oltre che promiscuità privata, ma, come accade per l’uomo che in San Paolo vive presso Dio, il prodigare è della società e non della società, usa il mondo come se non l’usasse appieno. È qualcosa di misterioso, di estraneo a ogni mercanteggiare. È estraneo perfino alla fiducia, che è ingrediente cruciale del vivere comune. Non si regala a causa della fiducia, per il semplice motivo che il dono è senza perché. È come la rosa del mistico Angelus Silesius: «La rosa è senza un perché, ohne Warum; fiorisce perché fiorisce, non chiede conto di se stessa, non chiede se viene vista». Pulire le parole ed eliminarle se sbilenche o corruttrici è tra le attività più belle della mente, e guardando giornali e televisioni delle ultime settimane è purificazione indispensabile: tanto grande è la stortura che viviamo. Il culmine è stato raggiunto, secondo me, qualche giorno fa sul telegiornale di Raiuno, in un brioso servizio sui regali natalizi spiacevoli o infastidenti. L’ideatore del reportage voleva probabilmente esser spigliato, anticonformista, interessante, originale. È come avesse voluto trasmettere una sua verità sfrontata, rompere chissà quale tabù. «Adesso vi diciamo sui regali di Natale qualcosa che vi compiacerà. Qualcosa che in tanti pensate silenziosamente ma che io oso dire a voce alta: non tutti i regali sono graditi, anzi alcuni sono enormemente sgraditi». Seguiva un elenco di regali poco apprezzati perché noiosi, monotoni, ripetitivi: la sciarpa per esempio provocherebbe suprema noia e denoterebbe poca fantasia. Non ricordo l’intera lista: nella mente m’è restata impigliata la sciarpa. Ci sono regali in e altri out. A questo punto partiva una di quelle inchieste a caldo, con i passanti che dicono la loro sui regali scorretti che ricevono o che paventano: uno alzava gli occhi al cielo con tedio ammonitore; l’altro si riprometteva di scambiarli con doni meno banali, meno inutili; un altro ancora meditava di riciclare strenne e pensieri vendendoli online. Mi sono detta che le anime di queste persone erano come intirizzite, già morte. Come quel dannato – Branca Doria, traditore degli ospiti – che in Dante già è rovinato sotto la crudele crosta della morte nonostante sulla terra appaia ancora vivo, e mangi e beva e dorma e vesta panni. Il testo più luminoso sul dono a mio parere l’ha scritto Adorno, nel paragrafo 21 di Minima moralia. Vale la pena leggerlo, rileggerlo, e regalarlo perché questa sì è idea squisita. Perché parla della nostra capacità o incapacità di saper donare – oltre che di accogliere doni – e della sorpresa che è l’incontro con volti che durante l’anno ci son stati prossimi o meno prossimi. Persone che apprendiamo a guardare, che ci esercitiamo a ricordare: giacché ogni presente offerto oggi è un ricordo nel domani. Il donare infatti è qualcosa che si disimpara. Secondo lo scrittore è già disimparato e inesorabilmente entrato in decadenza a cominciare dal momento in cui sono apparsi quegli strani negozi – proliferano come i fast food – che sfoggiano all’ingresso l’insegna: «Articoli da Regalo». Gli Articoli da Regalo pensano al posto nostro il pensiero che non abbiamo: l’idea è che tu compri dieci articoli alla rinfusa e solo dopo ti figuri i destinatari. In realtà l’idea – meglio: la trovata – è escogitata per chi non sa assolutamente cosa regalare, essendo che non ha voglia di donare. Lo fa per necessità, per dovere. Il piacere è seppellito. Il donare autentico non ha nulla di necessario, anche se comporta una fatica che tuttavia arde benevola. Più è inutile, a volte, più è regale. Il vero regalare – così in Minima moralia – è provare felicità nell’immaginare la felicità di colui che riceverà. Significa scegliere, sprecare le ore nella scelta, dunque elucubrare, fantasticare sull’altro e su com’è fatto. In fondo significa regalare tempo, oltre a oggetti, e questo tempo sperperarlo. Significa uscire dal proprio tracciato, non concentrarsi su di sé ma pensare l’altro come soggetto, come fine anziché mezzo. Il donare contraddice e viola lo scambio. La frase più terribile è dire, quando si porge un pacchetto: «Questo regalo se vuoi lo puoi scambiare con qualsiasi altro di tuo gradimento». (Non meno tremende sono le liste-regali: tu metti i soldi in una sorta di vasca, e al resto pensano tutti tranne tu che pure potresti, magari vorresti. È la cancellazione del regalo). Deliziosa è la vecchia massima secondo cui a caval donato non si guarda in bocca. Ricordo mia madre che faceva disegnini di un cavallo con immense fauci spalancate: davanti a esse eravamo ritratti noi bambini che blasfemi scrutavamo-obiettavamo. Guardare dentro la bocca del cavallo è offensivo e mesto. Non sei sotto l’abete natalizio né a fianco della greppia sacra ma al mercato, con qualcuno che ti urla la sua proposta: «Non ti piace questo che t’ho dato? Prendi qualsiasi cosa purché il prezzo sia quello. Fai quel che vuoi tanto a me non importa nulla». Vero è che in questi casi il beneficiato ha almeno la possibilità di fare a se stesso un regalo. Ma la proposta resta agli antipodi del regalare. Il regalo, quale che sia, fa bene a chi lo riceve ma ne fa uno, immenso, anche a chi regala. Donare è una disposizione dell’animo cordiale, è un aprire incondizionatamente l’uscio all’altro. È un atto di fiducia ma nella sua gratuità l’oltrepassa. Chi non sa regalare o decide di non far più doni, anche senza volerlo è caduto preda del fluire del dono in scambio. Regalare è un aiuto a uscire dai recinti della propria interiorità, a fare vuoto dentro di sé per aprire spazi all’altro e alle cose per l’altro. Ogni relazione non deformata, ogni esperienza di riconciliazione nella vita organica, conclude Adorno, è un donare. Chi ne è incapace perché ragiona secondo logiche consequenziali diventa una cosa e si raggela. Il donare è un’esperienza eminentemente religiosa, se vissuto con profondità. Donare quia absurdum, come il credere, sfida la logica della conseguenza. Non è casuale che il più gran numero di regali s’accumuli il giorno della Natività di Gesù, in cui tutto è donare, è dare se stesso. Tutto, anche quel che lo circondò. Fu dono l’obbedienza di Giuseppe, che accolse la sposa ingravidata da Dio. Fu dono Giovanni Battista, che accettò di farsi piccolo perché Gesù fosse grande. Fu dono Maria: non c’è quasi dipinto in cui il suo viso non esprima l’indicibile tristezza del presentimento. Nel quadro di Lorenzo Lotto a Recanati addirittura fugge spaventata con un gatto, davanti all’angelo annunciante. Donare è un’esperienza religiosa perché è gesto assurdo. Non sappiamo cosa ne sarà, e però lo facciamo. Non sappiamo quanto durerà. È la rosa di Silesius. Nella sconvolgente lettera dalla prigionia, Ingrid Betancourt parla come nel salmo 23: «Vivo come morta. Non ho bisogno di nulla, e almeno son libera di desideri». Proprio questo le dà la forza di dire no ai carcerieri. Le dà la forza di pensare ai figli e all’unico libro cui ha diritto – la Bibbia – come un lusso e un dono.

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