effetti collaterali della “guerra” liberista venerdì, Gen 25 2008 

Gli effetti collaterali di quella che è stata definita una “guerra” liberista, che influiscono sulla realtà sociale e civile si sono trasformati in perdite e profitti, in nome di una ragion di stato aziendale o nella ragione di gruppo di imprese in ristrutturazione.
E, che in realtà la “guerra” liberista provochi gli stessi effetti della guerra classica, è stato posto in evidenza da Patrick Bouvard attraverso alcuni esempi:
eccita i più bassi istinti dell’umanità, incitando le persone alla megalomania, agli abusi e al tornaconto personale senza alcun pudore; provoca nella opinione degli stessi che la credono giusta (la guerra), e che la sostengono con il loro consenso, un certo numero di dubbi, di paure, nonché una impressione sempre più definita di imbroglio e di inutilità; infine, colpisce e marchia in modo indelebile le persone e le popolazioni più esposte e più deboli.
Si potrebbero aggiungere ancora ulteriori spunti di riflessione, ma queste annotazioni schematiche saranno sufficienti per aiutare ciascuno di noi a fare considerazioni e collegamenti ulteriori, a partire dalla propria esperienza.
Fermandoci un po’ a pensare, avremo la possibilità di scoprire quanto sia grande la illusione che negare l’altro voglia dire affermare se stessi. Quanto rappresenti soltanto il contrario della realtà il fatto che l’affermazione di sé debba implicare la negazione dell’altro (mors tua vita mea). La negazione dell’altro si basa su una profonda negazione di sé, sull’odio che (inconsciamente) si ha per sé; mentre la vera affermazione di sé comprende sempre anche l’affermazione dell’altro. Di conseguenza l’aggressività che nel primo caso si trasforma inevitabilmente in distruttività, nell’altro diventa fiducia, pro-positività, amore e saggezza. La saggezza rappresenta l’affermazione della vita, un sì senza riserve all’affermarsi delle forme e delle diversità dell’esistenza ed è saggio quindi chi afferma sé stesso ma non rinuncia a riconoscere l’affermarsi dell’altro.
In questo modo la violenza non riuscirà a dominare la persona, nel momento in cui essa potrà esprimersi esercitando le sue capacità individuali. È paradossale! Perché spesso si crede che l’essere non aggressivi voglia dire offrire maggiori chance agli altri, Ma questa è l’illusione che, di solito, innesca un conflitto.

la guerra liberista giovedì, Gen 24 2008 

Non ho intenzione muovere una critica all’economia liberale in quanto tale. Vi sono autorevoli prese di posizione in merito che condivido pienamente, penso ad esempio a Guido Rossi e al suo recente “Il mercato dell’azzardo”. Vorrei però sottolineare che nell’ambito dell’economia neo liberale il concetto di “guerra” sta avendo una estensione mai avuta prima; e ciò sembra diventare – come ha fatto notare Patrick Bouvard, un sagace consulente della francese Shared Value, in una sua nota per RHinfo – “una realtà normale e benefica al servizio della popolazione”. Perché, egli soggiunge, si può pure pensare che la concorrenza esacerbata debba essere posta (teoricamente) al servizio del cliente, che si accomuni a una competizione senza respiro; ma se i comportamenti che la sostengono portano a parlare di “guerra” non è certo per semplice deriva semantica.
Sembra che la “guerra” liberista provochi effettivamente gli stessi effetti della guerra classica, annota Patrick Bouvard; sottolineando che in questo caso non si può parlare di economia liberale ma piuttosto di liberalismo selvaggio che sconvolge le regole dello stato di diritto e tende al profitto attraverso una deregulation ad ampio spettro che sfocia inevitabilmente in uno stato di “guerra”. Ecco quindi l’emergere di condizioni altamente conflittuali che non si può o non si vuole risolvere attraverso la negoziazione; una violenza che mira soprattutto alla “distruzione” dell’avversario; una volontà di egemonia e di dominio che preclude al “nemico” libertà di movimenti ; un praticare artifici per sbarazzarsi facilmente dall’ingombro di considerazioni morali e sociali che riguardano di solito le relazioni pacifiche tra le persone.

i nostri limiti lunedì, Gen 21 2008 

Da parecchio tempo siamo in molti ad avere l’impressione che la società stia diventando più violenta e non pensiamo tanto alla criminalità organizzata o al conflitto armato, quanto all’incattivirsi delle relazioni tra le persone. Non dimenticando quei fenomeni di aggregazione, quelle associazioni di potere o lobby – segrete o palesi – che agiscono esclusivamente per gestire potere e guadagno.
Assieme a tutti i vantaggi connessi all’evoluzione dei mercati e delle tecnologie, occorre tener conto anche dei rischi che ne derivano; in questo caso, consapevole che nessuno può sentirsi autorizzato a proporre spiegazioni esaustive, voglio tentare qualche riflessione provando ad applicare a questo argomento attenzione e senso di responsabilità con la stessa diligenza con cui tutti noi cerchiamo, nei limiti delle nostre possibilità, di governare per il meglio le cose importanti del nostro lavoro.
Le teorie più diffuse sull’aggressività e la violenza affrontano il problema sotto la categoria della devianza, cogliendo spesso unicamente la dimensione psicologica della persona oppure l’innatismo tipico della specie animale; oppure fanno risalire le origini a colpe più o meno evidenti della famiglia, della scuola, ecc. Limiterò il campo di osservazione al “mercato” ( si pensi alla ondata di marketing “estremi” o “no limits”) e ai fattori non direttamente individuali che tuttavia “modellano” le relazioni e le dinamiche relazionali. Mi fermerò a considerare brevemente che il fenomeno potrebbe avere origine ed espandersi con una certa rapidità proprio a partire dal mondo del lavoro; più precisamente dai linguaggi e dagli slogan che improntano –da oltre un decennio – il mondo della produzione e del consumo, che direttamente o indirettamente influenzano la organizzazione aziendale e di conseguenza i comportamenti delle persone.
Queste considerazioni potrebbero risultare limitate, non esaustive, riduttive. Tuttavia sembrano opportune per osservare in modo non ortodosso dati di fatto che possono aiutarci a comprendere quanto sia urgente ridare importanza ai valori della persona e alla capacità individuale di autocontrollo dei propri impulsi e delle proprie azioni.

Il lavoro operaio all’inferno? domenica, Gen 20 2008 

Dalla pagina “Lettere & Commenti” – la Repubblica del 16 gennaio scorso . ho ritagliato questa lettera che mette in luce una nuova “civiltà” della gestione delle risorse umane e, nel caso specifico, degli operai. Quel modo di fare non mi è nuovo, ricordo che recentemente anche in una azienda della provincia di Milano è stato segnalato un comportamento organizzativo simile e gli operai scioperarono proprio per mettere in risalto quella “intelligente” scelta aziendale.
Trascrivo la lettera di GB, che mi porta a considerare la inumanità di certi comportamenti e la necessità di restituire dignità umana al lavoro.

Sono un operaio di 34anni, sto scioperando insieme ai metalmeccanici per il contratto di lavoro e tocco con mano che non interessiamo più a nessuno. Anche il rispetto del nostro lavoro è ridotto ai minimi termini. Pensate che a Melfi e Pomigliano d’Arco “è vietato” parlare in gruppi di persone superiori alle tre unità, e si può prendere un contestazione disciplinare solo perché invece che recarsi al bagno a fare la pipì si va a bere. (Gianni Bortolini)