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Negli USA aumentata dell’89% la sindrome da “violenza di ritorno”
13.01.2008, 17:30 | La violenza della guerra entra nel sangue a tal punto che a conflitto terminato per alcuni soldati statunitensi è difficile smettere di uccidere: almeno 121 veterani impegnati in Iraq o in Afghanistan, una volta rientrati in patria hanno sicuramente ammazzato qualcuno o sono formalmente accusati di averlo fatto, mentre un numero imprecisato di militari sono coinvolti in altri 349 casi di omicidio.
Lo rivela domenica il New York Times, che in prima pagina pubblica i risultati di una sua inchiesta, basata sulle informazioni raccolte attraverso giornali locali, rapporti di polizia, documenti ufficiali sia di tipo militare sia giudiziario. Dall’indagine emerge un dato impressionante: il fenomeno della cosiddetta “violenza di ritorno” è cresciuto dell’ 89%, rispetto ai periodi precedenti, da quando sono cominciate le guerre in Iraq e in Afghanistan.
Il New York Times ha chiesto ragione al riguardo al Dipartimento della Difesa USA, “ma i dirigenti interpellati non hanno immediatamente risposto mentre l’Agenzia militare ha declinato l’invito”, scrive il quotidiano. Un portavoce dell’esercito, però, il colonnello Les Melnyk ha contestato sia le premesse, sia il metodo dell’inchiesta. Per esempio, sostiene il graduato, sono stati messi insieme casi di omicidio colposo con casi di omicidio preterintenzionale, casi di omicidio di primo grado con casi di incidenti stradali. Per questo motivo, conclude, i risultati dell’inchiesta appaiono essere clamorosi.
Resta il fatto che, secondo il quotidiano, “né il Pentagono, né il Dipartimento di Giustizia provvedono a monitorare delitti di questo tipo”, nonostante siano pubblicamente trattati nei tribunali. Tra i diversi eventi citati, figura quello di un padre di 20 anni ricoverato per le ferite riportate in Iraq che ha trucidato la figlia di 2 anni, oppure quelli (numerosi) di fidanzate o moglie uccise durante liti.